I fantasmi nelle perdite idriche, dati e ipotesi per una gestione realistica

Si parla sempre più di sprechi idrici da perdite acquedottistiche, ma i dati non sono sempre chiari. Ipotesi per una gestione realistica.

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(di Alberto Pierobon)

Il balletto delle percentuali; non solo tubi, ma anche cambiamento climatico: si parla sempre più di sprechi idrici da perdite acquedottistiche, che ballano da un 20 al 65%. Addirittura la situazione sembra peggiore in certe realtà, dove le perdite superano il 100% e più.

Il punto è come vengono calcolate, anzi misurate queste percentuali, parlando di perdite (sulle quali bisognerà però intenderci).

Quindi il primo aspetto è di metodo e di un approccio che deve allargarsi, oltre (ci si consenta) ai “tubi”. Non si possono ridicolizzare i cambiamenti climatici, che oramai riempiono i notiziari televisivi: le precipitazioni piovose meno frequenti e più intense (bombe d’acqua), le inondazioni, la siccità, gli incendi, gli uragani, ecc. Sono tutti aspetti che interagiscono con la cementificazione, l’impermeabilizzazione dei suoli, l’espansione urbanistica e demografica, il minor verde, l’inassorbibilità delle acque piovane, l’esplosione dei consumi di acqua, più in generale, l’inquinamento e il degrado ambientale.

Queste nuove esigenze imporrebbero (per il semplice buon senso) di realizzare: invasi, casse di espansione, barriere, dighe, serbatoi in tunnel, ecc. Infatti, le precipitazioni, l’evaporazione i deflussi rilevano nella programmazione delle “riserve” nei tempi di ricostituzione naturale dell’acqua. Gli “invasi” consentono un trade-off tra le acque disponibili nei periodi di abbondanza, con la penuria in periodi di scarsità. In generale si potrebbe pensare di trasferire l’acqua tra diverse zone e tra diversi enti idrografici, con forme solidaristiche e redistributive dell’acqua e dei suoi costi (anche ambientali). Non va infatti sottovalutato (anzi!) che il global warming provocherà nuovi conflitti e strategia, nella drastica diminuzione dell’acqua, con spostamento delle aree agricole (dal sud al nord), crisi nella alimentazione, speculazione nel mercato food and water, come pure di quello energetico.

Ma, purtroppo, l’attenzione dei tecnici e dei manager si ferma ai “tubi” (rete idrica) che necessitano per la loro vetustà e stato di funzionamento di investimenti ciclopici (anche qui le cifre ballano: da 60 a 150 miliardi di euro in 30 anni) e qui scatta la finanza e… altro.

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Perdite idriche: i dati di partenza

Purtroppo i dati di partenza sono spesso inattendibili, perché le talvolta artificiose, percentuali di perdita[1] possono essere frutto di scelte e di calcoli opinabili da parte del management, sin dai dati di partenza.

Questi dati si riparano dietro all’archeologia e all’ingegneria degli acquedotti, non senza operazioni fantasiose trasfuse in statistiche, relazioni, tabelle e dati di esercizio. Del resto, se mancano idonei e tecnologici apparecchi di misura, o se si lascia che i vecchi contatori malfunzionino tutto diventa più discrezionale, creativo.

Non mancano così manipolazioni ai dati, conducendo così a scelte non sempre condivisibili, che importano altri modelli “comodi” di razionalizzazione (ad es. la distrettualizzazione) della rete che però sembrano rimanere ancorate alle strutture esistenti, mancando il coraggio (e talvolta la forza) di ripensarle, per riprogettarle.

Con la scusa che mancano i soldi per le opere si interviene “a pezzi”, si potrebbe dire “è peggio il rappezzo che il buco”. Infatti anche con la rete colabrodo si possono ottenere, da subito, miglioramenti gestionali e segnatamente sulle perdite (vedi oltre).

Perdite idriche: la gestione realistica

Si indica nel range del 5-10% l’accettabilità delle perdite idriche che sostanzialmente deriverebbero da:

  • presenza di una tubazione obsoleta, da riparare e da sostituire;
  • il fenomeno di coloro che non pagano e dell’abusivismo;
  • le perdite c.d. “fisiologiche”: fisiche (lavaggi, sfiori,etc.) o amministrative (errori lettura nei contatori, mancata misurazione consumi, etc.)[2];
  • l’acqua venduta agli utenti potrebbe subire delle perdite nella distribuzione (da inefficienza manutentiva o altro) anche fisiologiche (lavaggio tubazioni, serbatori e filtri, sfiori tecnici).

Qui siamo ancora alla contabilità da rivedere, alle statistiche da contestualizzare. Inoltre, non vanno sottovalutati gli interventi di manutenzione, per come vengono congeniati e attuati.

Importantissima è però la misurazione della portata e della pressione, nel concreto sistema acquedottistico, essendo diverse le soluzioni a seconda se si è in presenza – o meno – di un sistema misto di condotte/serbatoi per gravità, integrato da motori per il sollevamento/pompaggio dell’acqua, o di altro. Ad esempio, una città con serbatoi pensili dove si tiene una pressione fissa (costante) stabilita per serbatoi da 30 metri, considerando che di notte la pressione potrebbe essere abbassata, perché 20 metri di volume di acqua nel serbatoio sono sufficienti per le esigenze degli utenti (salvo emergenze o scorte, es. antincendio). Invece si prende spesso a riferimento il solo “consumo di punta”, che altera la portata dell’acqua e la sua pressione. Si deve quindi ricercare una ottimizzazione del sistema nel suo complesso.

Dall’utenza (misuratori) alla fonte (misurata), passando per le perdite (da misurare)

Rovesciamo l’impostazione: servono contatori che misurano all’istante, consentendo di conoscere i consumi in modo certo e affidabile. I consumi effettivi che consentono di capire i “consumi medi”, diversi per fascia oraria (mattina, pomeriggio-sera, notte), come pure stagionalmente (inverno-estate), mentre di notte si riscontrano i “consumi bassi”.

La portata diventa quindi una variabile, non una costante, diventando così possibile bilanciare dinamicamente i volumi di acqua immagazzinati con serbatoi e vasche, ottimizzando l’intero sistema, con minor spreco di acqua. Insomma, i misuratori sono fondamentali, non solo per i guasti, ma pure per la regolazione, guardando alla pressione a destinazione dell’utenza, non tanto a quella in partenza dalle centrali.

Preferibilmente i serbatoi vanno riempiti di notte, con l’acqua in eccesso, risparmiando energia, e vanno svuotati il giorno dopo. I galleggianti che chiudono la condotta quando il serbatoio è pieno, aumentando a dismisura la pressione dell’adduttrice, vanno sostituiti con le moderne apparecchiature che regolano l’immissione in serbatoio, funzionalmente ai livelli e alle compensazioni volute.

Guardare anche agli appalti (progetto, esecuzione, controlli)

Per una corretta analisi delle “perdite” , come detto, non bisogna limitarsi alle statistiche “interne”, spesso frutto di misurazioni e di artifici, bensì analizzare i contratti e il come sono spesi i soldi per gli investimenti, le manutenzioni e l’energia (che anche essa si spreca).

Dal punto di vista quantomeno etico (pur se gli effetti paiono alla fin fine modesti: 5-6%) l’acqua va razionalizzata e incentivata nel risparmio, ad esempio con l’utilizzo di rubinetti con valvole rompigetto, riduttori, scarichi doppi per i wc, realizzazione di tetti verdi, pavimentazioni permeabili, ecc. Invero, gli “efficientamenti” gestionali spesso nei servizi pubblici, in generale, si riducono a operazioni “creative” per esigenze di bilancio e per riempirsi la bocca, mettendosi medaglie al petto.

Ad esempio, la soluzione non pare essere la “distrettualizzazione” (quartieri, zone, ecc.), dove si creano “parti” di acquedotto, valutandone la portata minima notturna, sottraendola dai consumi ipotizzati per una determinata zona (ad accesso limitato e con numeri ridotti di utenti: industrie nelle varie tipologie e turni di lavoro, ecc.), con misurazioni on line, localizzando le perdite con varie metodiche (acustiche, vibrazioni, termografia, gas traccianti, magnetici, ultrasuoni, etc.). Qui si ricorre ad algoritmi (evolutivi-darwiniani!) per non essere pratici, per ripararsi dietro a complessi studi, senza rivedere in toto il sistema.

Sono fattori che vanno valutati nel complesso. In Italia la gestione deve uscire dai sarcofaghi e guardare all’esterno, rivedendo criticamente sé stessa. In altri paesi, il trend green, ha imposto alle aziende quotate (direttiva EU/95/2014 del 22 ottobre 2014, attuata domesticamente col D.Lgs. 30 dicembre 2016, n. 254) di comunicare all’esterno i fattori Environmental Social and Governance rilevanti per la Corporate Social Responsability.

Sono finiti i soldi. Che si fa?

Le casse statali languono, e quindi i vecchi contributi a fondo perduto sono una chimera (salvo emergenze), anche l’indebitamento con l’emissione di prestiti obbligazionari (c.d. hydrobond) comporta vincoli pluriennali. E il recupero tariffario comporta una redistribuzione dei costi poco equa, dove il ceto medio-basso rischia di essere ulteriormente impoverito, nel tempo, da una inevitabile impennata tariffaria, ove si volessero realizzare i lavori e le opere di cui si è detto per 60-150 miliardi di euro in trent’anni.

L’AEEGSI indica in 45/50 euro/abitante la parte costituente la quota tariffaria, che però potrebbe, nello scenario di avvio degli investimenti necessari, arrivare (secondo il Prof. A. Massarutto) a ben 100 €/abitante.

Allora perché non si comincia a capire meglio, ad es. sostituendo i vecchi contatori con quelli multifunzione, e prima ancora, regolando – nel sistema non a gravità – la pressione portandola da costante a variabile, dotando la rete di apparecchiature per ottimizzare la movimentazione delle “riserve” (il cennato bilanciamento dinamico dei volumi di acqua).

Solamente dopo – sempre che ricorrano le condizioni di necessità (non solo quelle economico-finanziarie, che dischiudono a voraci appetiti altrui) – si potrà progettare di cambiare le condotte, non senza trascurare che nei lavori in progress, aumenta la  pressione e quindi le perdite.

Infine, per finanziare questi interventi colossali (nuove opere) è forse ipotizzabile ricorrere alla tassazione immobiliare (con destinazione di scopo), considerando che la tariffa, impostata a corrispettivo (pur se non “puro”) rimane dentro un meccanismo di convenienza e di calcolo individualistico-utilitaristico, non rispondendo quindi ai criteri redistributivi, coi quali ultimi si recuperano aspetti “valoriali” (anche costituzionali: solidarismo, equità, etc.) dei quali la nostra comunità sembra aver sempre più bisogno.

 

[1] sulla critica alle percentuali si veda persuasivamente M.Fantozzi, Nel valutare l’efficienza di un acquedotto non fatevi ingannare dalle percentuali di perdita,newsletters LUEL, settembre 2017.

[2] i tecnici sovente si limitano a “difendersi” imputando le perdite ai “lavaggi condotte”  – ove più aumenta il loro diametro più aumenta la perdita – agli sfiori tecnici, etc., nonchè minimizzando le perdite amministrative (es. gli insoluti) e quelle di rete (tubazioni colabrodo o altro).

Articolo di Alberto Pierobon
www.pierobon.eu

Redazione Tecnica

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