Sicurezza sul lavoro, responsabilità condivisa tra lavoratore e datore di lavoro

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In capo al datore di lavoro non esiste un obbligo di vigilanza assoluta con riferimento al lavoratore: nel momento in cui vengono forniti tutti i mezzi idonei alla prevenzione e sono adempiute tutte le obbligazioni proprie della posizione di garanzia in cui è situato il datore di lavoro, quest’ultimo non sarà chiamato a rispondere dell’evento derivante da una condotta “imprevedibilmente colposa” del lavoratore.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione (mediante la sentenza 10 febbraio 2016, n. 8883): i giudici hanno fornito ulteriore definizione al principio secondo cui deve essere dato un peso più rilevante alla responsabilità dei lavoratori attraverso l’attuazione del c.d. “principio di auto responsabilità” degli stessi. Si conferma in tal modo l’abbandono progressivo del criterio esterno delle mansioni che “si sostituisce con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità del fattore causale”.

Ma qual è il caso di specie da cui origina la pronuncia dei supremi giudici? Tutto parte dal ricorso proposto dall’amministratore di una società e dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) della società stessa, contro la sentenza d’appello che li aveva riconosciuti colpevoli del reato di lesioni a carico di un lavoratore caduto dal tetto di un capannone. Dai fatti accertati risultava che la sera prima dell’incidente, il lavoratore, elettricista manutentore, dipendente della società da 5 anni, si era recato per un sopralluogo, su incarico della propria azienda e accompagnato dall’amministratore della società, presso un capannone del committente dove avrebbe dovuto montare dei faretti sulle pareti esterne. In tale circostanza il lavoratore e il RSPP della committente avevano utilizzato un elevatore con braccio meccanico. A conclusione del sopralluogo il RSPP della società datrice di lavoro, informato telefonicamente del lavoro da eseguire, gli aveva detto di prendere tutte le attrezzature di lavoro e di sicurezza, con la verosimile certezza che l’operaio avrebbe operato dall’elevatore messo a disposizione dal committente. Avveniva invece che il lavoratore, pur servendosi dell’elevatore, si portava sul cordolo esterno del capannone, frantumatosi per l’esilità delle lastre di eternit, causando l’infortunio.

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A parere dei giudici di primo grado non era possibile sostenere che tale tipologia di lavori dovessero essere svolti dal tetto e non dall’elevatore. Era risultato, inoltre, che gli imputati avevano organizzato il lavoro da effettuare senza che fosse prevista la necessità di salire sul tetto, sincerandosi che la ditta cliente mettesse a disposizione l’elevatore, ritenuto più che sufficiente per svolgere l’attività in sicurezza.

I giudici di secondo grado (Corte d’appello) erano di diverso avviso, condannando invece i due imputati per aver omesso di predisporre i necessari apprestamenti di sicurezza.

I giudici di legittimità (Cassazione) hanno, in tale circostanza ribadito che la radicale riforma in appello di una sentenza di assoluzione non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, Insomma è necessario che tale ribaltamento si fondi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva.

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Al di là di tali valutazioni di procedura, ciò che interessa è la conferma ulteriore del “principio di auto responsabilità”. Inoltre, un orientamento prevalente della Corte di Cassazione rammenta come il sistema della normativa antinfortunistica si stia lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo“, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello di tipo “collaborativo” in cui gli obblighi vengono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Questo principio, normativamente affermato dal Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro (d. lgs. 81/2008), naturalmente non esclude, per la giurisprudenza della Cassazione, che permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall’affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest’ultimo.

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Redazione Tecnica

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