Adesso che abbiamo ideato le Smart City, cosa ce ne facciamo?

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“Le città sono i luoghi in cui si esprimono i conflitti e se i conflitti si risolveranno sarà grazie ai sistemi di partecipazione” (Marcello Balzani). Lo dice anche Bauman, il visionario della città liquida, che già per certi versi è già una Smart City. Ma oggi di Smart City si parla con grande insistenza, troppo, anche per l’invasione della tecnologia digitale. Grazie alla tecnologia digitale oggi abbiamo ributtato al centro delle discussioni la Smart City, rendendola esplicita, chiamando dichiaratamente “smart”, “intelligente”, la città che vorremmo, senza mezzi termini. Proprio la tecnologia digitale ci permette di avere un’immaginazione fervida, e ci dà la possibilità e lo stimolo di pensare alla città intelligente come davvero la vorremmo. E cos’è che vogliamo? Vogliamo avere meno problemi, giorno dopo giorno. Per fare questo, bisogna recuperare e mettere di nuovo al centro dell’organizzazione sociale ciò che distingue l’umanità dagli animali. I due mezzi sono: architettura e tecnologia digitale.

Scrive Bauman: “La società umana è diversa dal branco di animali perché qualcuno può sostenervi; è diversa perché è in grado di convivere con degli invalidi, tanto che storicamente la società umana potrebbe dirsi nata insieme con la compassione e con l’aver cura; qualità soltanto umane. La preoccupazione odierna è tutta qui: portare questa compassione e questa sollecitudine sul piano planetario. […] Non riesco a pensare a niente che sia più importante di questo. È da qui che si deve cominciare” (Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, ed. B. Mondadori, 2005, p. 79).

Questo il punto di partenza dell’intervista sulle Smart City all’architetto Marcello Balzani realizzata in collaborazione con Pionero.it e Architetti.com. Risolvere i problemi e i conflitti del cittadino. O del turista. Questo è lo scopo della tanto chiacchierata “Smart City”, tanto intelligente, sulla carta tanto utile all’uomo. Sulla carta. Per raggiungere il suo scopo, e lo stato di “intelligente” non solo a definizioni, la città deve solo usare l’architettura e la tecnologia ma farle convivere, lavorare insieme, integrare.

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È innegabile che l’architettura sia dappertutto, che sia lo sfondo continuo delle nostre azioni quotidiane. L’architettura è anche dove vorremmo che non fosse, cioè anche negli angoli più oscuri e brutti delle nostre città. E si può definire architettura quella? No, perché se non c’è un progetto sensato, con un’idea al centro – visto che l’architettura dovrebbe migliorare la vita all’uomo, non peggiorarla, anche dal punto di vista della visione, del paesaggio urbano – allora non è architettura. Forse è costruzione. Quella si, è la parola adatta.

Qualsiasi cosa sia, il costruito nelle nostre città è vissuto dall’uomo con disattenzione, anche se si tratta dei Fori Imperiali, ai quali la vita di tutti i giorni rischia di farci abituare e spesso ci riesce. È qui che s’innesca il rapporto tra architettura e tecnologia, cuore della città intelligente: la tecnologia PUÒ mettere l’architettura in attenzione, sotto i nostri riflettori, vale a dire risvegliare l’uomo nei confronti del paesaggio urbano e della città. E facendo questo, può mettere al centro dell’attenzione tutti i servizi che all’interno dell’architettura sono contenuti, quei servizi che sono al nostro servizio (scusate il gioco di parole) per migliorarci la vita.

C’è un però grosso come una casa. Non è scontato che la tecnologia renda tutto “smart” perché l’intelligenza non è nella tecnologia, ma è dentro di noi, anche se a volte scappa e se ne va altrove e allora, per esempio, progettiamo luoghi osceni facendoli passare per grandi progetti.

È nostro compito non permetterle di scappare e trasferirla alla tecnologia. Se le tecnologie a volte ci sembrano non funzionare, la responsabilità non è la loro, è la nostra: per far sì che funzionino davvero “dobbiamo offrire delle direzioni di riconoscimento più forti” (Balzani).

Sono partito dalle parole di Balzani, e ho concluso con le parole di Balzani. Sulle Smart City, quindi, lascio parlare lui.

 

Giacomo Sacchetti

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