Industrie insalubri, sono davvero inammissibili nel territorio comunale?

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Sulla base delle norme igienico sanitarie le industrie insalubri, come definite dall’articolo 216 del Testo unico delle leggi sanitarie, di cui al regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, possono essere realizzate nelle apposite aree individuate dallo strumento urbanistico generale.

Nell’esame di un caso di variante alla concessione edilizia riguardante un edificio destinato a impianto di zincatura e consistente nella costruzione di un piccolo corpo in ampliamento e nella sistemazione dei bagni e degli spogliatoi dei dipendenti, i ricorrenti lamentano che su tale domanda non è stato adottato alcun provvedimento.

Nel mentre il Consiglio Comunale ha adottato una variante al piano regolatore generale  disciplinando le destinazioni d’uso ammesse nelle zone produttive, con l’introduzione del divieto di insediamento nella località del ricorrente, di industrie insalubri di I classe e, parzialmente, di II classe così come definite dal citato articolo 216 del Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265 e dal decreto ministeriale 5 settembre 1994.

Nel merito il Responsabile dell’ufficio tecnico comunale ha sospeso ogni determinazione sulla domanda di concessione edilizia in argomento, ai sensi della legge 3 novembre 1952, n. 1902, per la vigenza delle misure di salvaguardia sull’adottata variante allo strumento urbanistico.

In tale contesto la tutela procedimentale dei proprietari incisi non deve essere differenziata e non può quindi che risolversi nella facoltà di proporre osservazioni o opposizioni al Consiglio Comunale, come previsto dalla disciplina urbanistica.

Nel ricorso del ricorrente per la censura delle determinazioni adottate dal comune, la V Sezione del Consiglio di Stato, con la Sentenza del 17 marzo 2014, n. 1331 ha espresso che, in linea di principio e fermo restando che la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso e descritti dalla relazione illustrativa del piano o della sua variante, si richiede una puntuale motivazione allo strumento urbanistico generale soltanto in ipotesi di superamento degli standard minimi di cui al decreto interministeriale 2 aprile 1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento e indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, nonché di lesione dell’affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, di aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, di modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

Ciò non può essere condiviso, poiché le scelte urbanistiche dettate dall’Amministrazione comunale mediante la relativa strumentazione piano regolatore costituiscono valutazioni connotate da amplissima discrezionalità, sottratte come tali al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto abnormi ovvero da manifesta irragionevolezza (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2013, n.5114).

In tale contesto, fermo restando che l’intero territorio comunale, ovvero una parte preponderante di esso, non può essere inibita all’insediamento di industrie insalubri come definite dal richiamato articolo 216 del regio decreto 1265 del 1934, la presenza di un’area a carattere prettamente storico o residenziale è di per sé sufficiente per fondare la legittimità del divieto all’insediamento medesimo stabilito dal consiglio comunale in sede di pianificazione urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. IV, 13 luglio 2011, n. 4243).

Mario Di Nicola

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