L’energia del XX secolo e le energie del nostro futuro

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Se volessimo rappresentare il secolo appena trascorso ricorrendo ad un aspetto emblematico – non necessariamente un evento specifico – che lo ha fortemente caratterizzato nel corso degli anni e che ha modificato la vita e le abitudini di una larghissima parte della popolazione con ricadute che sperimentiamo ancora nel presente, immagino che ognuno di noi resterebbe più che imbarazzato ed incerto di fronte alla moltitudine di possibili risposte generate dai numerosi avvenimenti di una certa rilevanza che si sono succeduti dai primi del ’900 fino alla fine del millennio. In questi casi la mente corre quasi automaticamente ad eventi drammatici e dolorosi, come le due grandi guerre che hanno segnato il secolo scorso; o ai momenti in cui è nata nuovamente la speranza in un domani migliore, come la ritrovata unità che ha pervaso l’Europa nel dopoguerra, gettando le basi per l’unificazione monetaria avvenuta in epoche recenti.

 

A mente fredda, si potrebbe riflettere su altri eventi, come le grandi scoperte della scienza – ricordo solo la scoperta del vaccino antitubercolare agli inizi del 20° secolo, quella della penicillina nel 1922 o quella del vaccino antipolio attorno agli anni ’50; o a quelle nel campo della fisica, come la scoperta delle reazioni nucleari o la formulazione delle basi della meccanica quantistica – quest’ultima probabilmente poco nota al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, ma non per questo meno determinante, come vedremo.

 

L’elenco potrebbe essere lungo e per ciascuna voce potrebbero essere addotte argomentazioni che ne avvalorano la scelta ed altre che vanno in direzione opposta. Certo, un secolo è lungo, abbracciando almeno un paio di generazioni ed è difficile trovare negli eventi citati quel tratto di continuità e di forte condizionamento che ho posto come criterio di scelta; quella lenta, ma implacabile azione di modifica delle condizioni di vita e la nascita di stili ed abitudini diverse dal recente passato.

 

Ma, al di là dell’abbondante materiale tra cui scegliere, esiste, a mio avviso, un elemento che più di ogni altro ha caratterizzato, nel senso appena detto, il secolo passato, permeando l’organizzazione della società in tutti i suoi aspetti e generando, in un processo a cascata, una ulteriore serie di mutamenti che hanno effettivamente cambiato la qualità della vita e le abitudini di milioni e milioni di esseri umani in tutto il mondo. Sto parlando della continua crescente disponibilità di risorse energetiche e della loro massiccia utilizzazione in molteplici campi dell’attività umana. Sì, sono convinto che sia proprio l’energia – termine tanto vago nella sua formulazione (quanti ne sanno dare una definizione sufficientemente rigorosa?) quanto mutevole e pervasivo nelle sue molteplici articolazioni, tutte capillarmente utilizzate da una moltitudine crescente di persone – il filo rosso che lega, uno dopo l’altro, gli anni del 20° secolo e che ha segnato in modo inequivocabile e duraturo il nostro stile di vita. Osservando le cose da un punto di vista diverso, forse meno unificante, è possibile arrivare a conclusioni diverse, avendo individuato altri cambiamenti nel nostro stile di vita e nelle nostre abitudini, sicuramente più appariscenti e meno generici: basti pensare agli sviluppi tecnologici in vari settori (ad esempio, nel mondo delle telecomunicazioni), a quelli avvenuti nel settore dei nuovi materiali, o infine ai progressi nel settore delle auto. Sono tutte innovazioni che ci riguardano molto da vicino e delle quali ci avvaliamo nell’uso quotidiano con grande soddisfazione. Tutte queste, però, e le molte altre che non ho citato, sono state conseguite grazie alle ampie possibilità nei settori di punta della ricerca che, a loro volta, sono state assicurate dall’apporto energetico necessario per far funzionare i macchinari, gli strumenti di misura, gli altiforni e tutta la fitta rete di interconnessioni che vanno dalla produzione dei beni alla loro distribuzione.

 

Insomma, la ragione determinante che ci ha portato allo stato attuale delle cose, seppure in un processo non breve ed abbastanza antitetico tra causa ed effetto, a mio avviso va ricercata nella facilità di accesso alle fonti energetiche primarie, causa prima dei notevoli cambiamenti e delle contraddizioni che hanno caratterizzato il 20° secolo.

 

La misura del cambiamento avvenuto è così marcata che molte persone – penso soprattutto ai più giovani – da un lato non riescono nemmeno ad immaginare quale potesse essere la condizione di vita negli anni in cui tali risorse non erano disponibili mentre, dall’altro danno per scontata, una volta per tutte e senza possibilità di arretramento, la disponibilità, sempre e comunque, di tutte le risorse energetiche attualmente disponibili nelle loro numerose declinazioni.

 

Per il comune cittadino tanta abbondanza di energia, da usare a cuor leggero e senza sensi di colpa, rappresenta un dato oggettivo, stabile e durevole nel tempo, mentre si dimentica che l’attuale floridezza energetica è la conseguenza di milioni di anni di lento accumulo di risorse naturali, mai intaccate dall’essere umano come dalla seconda metà del secolo scorso.

 

L’accesso diretto e a buon mercato alle varie modalità di utilizzo dell’energia ha generato una serie di ricadute sulle nostre abitudini e sul nostro standard di vita, di entità tale da far sembrare, attualmente, impossibile potervi rinunciare, dimenticando che solo pochi anni prima i nostri padri, e a volte anche noi, avevamo avuto un approccio assolutamente diverso. Tale mutato atteggiamento nei confronti di quello che potremmo definire l’accresciuto miglioramento della qualità della vita, è piuttosto diffuso nelle società occidentali (nelle altre parti del mondo decisamente meno), ma si attesta per il comune uomo della strada su alcuni aspetti particolari, come la grande mobilità dei singoli anche a scopi non direttamente produttivi, grazie ad una crescente offerta di mezzi di trasporto sia collettivi che individuali (leggi treni e aerei, da una parte, e auto, dall’altra), e l’altrettanto grande disponibilità di impianti, sistemi e dispositivi per il comfort e la produttività domestica (leggi elettrodomestici vari, luce, clima ed altro). Insomma, mai come nella seconda metà del 20° secolo, ma proporzionalmente anche nella prima, una buona parte della popolazione mondiale ha avuto a disposizione tanta energia nelle sue molteplici varianti da consumare spensieratamente per scopi non necessariamente di pubblica utilità.

 

Questa situazione appare paradossale e densa di prospettive inquietanti se si pensa che ora, nel momento di massima dipendenza del nostro benessere e del nostro stile di vita dalle risorse energetiche e di massima utilizzazione delle stesse, si stia profilando all’orizzonte lo spettro, o meglio, l’incubo, se non di un possibile esaurimento delle fonti energetiche tradizionali, quantomeno quello di un sensibile aumento dei costi di approvvigionamento e di distribuzione, il che probabilmente per noi tutti significa la stessa cosa. Ma questa è storia dei nostri giorni e ci torneremo tra un attimo, dopo avere analizzato più a fondo il contesto e le condizioni che ci hanno portato sin qui.

 

La svolta che ha creato i presupposti per i grandi cambiamenti del 20° secolo ha le sue radici in corrispondenza della rivoluzione industriale, con le prime macchine a vapore che hanno sconvolto i cicli di lavoro basati prima sulla fatica degli uomini e con la disponibilità del carbone che ha consentito quello che il legno, inteso come combustibile, non avrebbe mai permesso. Il 20° secolo è ancora fortemente segnato dal carbone come energia primaria, almeno fin quando il petrolio, scoperto nel 1859, ma utilizzato con un certo successo solo verso il 1880, non si affi anca ad esso come fonte energetica ausiliaria per poi scalzarlo in epoche più recenti. V oglio ricordare, infatti, che solo fino agli anni ’60 molti treni in Europa erano alimentati a carbone e lo stesso vale per gli impianti di riscaldamento. Quindi, prima il carbone, poi il petrolio e buona ultima l’energia prodotta dalla fissione nucleare hanno via via rappresentato il carburante che ha alimentato il processo di sviluppo che ha portato i paesi più industrializzati ai livelli attuali, non senza una serie di contraddizioni i cui nodi stanno venendo rapidamente al pettine.

 

Il primo problema è legato alla eccessiva dipendenza dal petrolio delle economie di diversi paesi, che vengono fortemente condizionate dalle fluttuazioni del suo prezzo e dalle possibili irregolarità negli approvvigionamenti. Le varie crisi succedutesi a partire da quella del 1973 hanno evidenziato gli effetti negativi che le carenze di petrolio provocano, soprattutto in termini di speculazione sui prezzi. Un primo tentativo di soluzione è rappresentato dalla ricerca da parte delle varie compagnie petrolifere, soprattutto da parte di quelle dei paesi più bisognosi di energia, di nuovi depositi naturali di materie fossili, diversi da quelli dei paesi storicamente fornitori di petrolio, giacimenti possibilmente caratterizzati da una sufficiente abbondanza e da costi di estrazione ragionevoli in relazione ai progetti che le compagnie operanti nel settore sono disposti a realizzare. Spesso i costi relativi all’approvvigionamento non sono fissati da parametri “tecnici”, ma risentono di condizionamenti di natura geopolitica, che possono, quindi, spingere il costo del petrolio verso l’alto a prescindere dalla reale disponibilità e dai relativi costi di estrazione.

 

Questo è il motivo che ha spinto diverse compagnie a reperire siti inizialmente non presi in considerazione per difficoltà tecnico-logistiche, come ad esempio le estrazioni in mare o a profondità maggiori di quanto non fosse avvenuto in passato, operazione questa senz’altro agevolata da una migliorata tecnologia. Questa tendenza è in atto già da anni, ma il limite fondamentale è legato ai costi complessivi, aggravati dalla necessità di rispetto di norme di sicurezza sempre più severe. Il tentativo di un alleggerimento della dipendenza dal petrolio prevede ovviamente altre opzioni, più o meno praticabili a seconda dell’ottica prevalente, tra le quali il carbone, il nucleare ed il pacchetto delle cosiddette energie rinnovabili, tra le quali, appunto, il fotovoltaico. Tra queste il nucleare è oggi al centro dell’attenzione internazionale per una serie di motivi, connessi appunto con la sicurezza per le popolazioni, aspetto questo inaspettatamente e dolorosamente balzato alla ribalta dopo il recente incidente avvenuto a Fukushima in Giappone.

 

La prima conseguenza di tale evento è rappresentata dalle decisioni di Germania e Svizzera nei confronti delle centrali nucleari presenti nel loro territorio e dall’interesse nei confronti della consultazione popolare sul futuro del nucleare in Italia tenutasi a giugno. Comunque, nonostante il grande clamore sul nucleare, sono sempre il petrolio, i gas naturali ed, in parte, il carbone a detenere il primato quali materiali di maggior impiego per la produzione dell’energia che usiamo a vari livelli. Uno svantaggio comune a tutte e tre le fonti energetiche appena citate è rappresentato dalla necessità di reperire prima i giacimenti, organizzare l’estrazione ed il successivo trasporto e distribuzione e soltanto dopo si può pensare al processo di trasformazione. I giacimenti di tali sostanze non sono distribuiti con grande equità nel globo terrestre e sono spesso concentrati in paesi lontani da quelli che ne avrebbero maggiore necessità (ad esempio Europa e Giappone), spesso caratterizzati da situazioni interne tutt’altro che tranquille.

 

È per questo motivo che già dalla seconda metà del 20° secolo sono state prese in considerazione possibilità alternative al petrolio, oltre a quella già nota rappresentata dal carbone. La naturale risposta a questa esigenza è venuta dalla tecnologia nucleare che ha consentito ai paesi che avevano compiuto ricerche in tal senso di sperimentare centrali nucleari a fissione. Anche in Italia è stata battuta questa strada, dopo il fallimento della ricerca del petrolio sul nostro territorio (si ricordi il caso di Cortemaggiore in Emilia dove nel 1949 venne trovato un modesto giacimento di petrolio che portò alla creazione del marchio Supercortemaggiore dell’Agip), e già dal 1960 fu inserito nel piano energetico nazionale il progetto di realizzare un certo numero di centrali. Il piano andò avanti per diversi anni fino al 1987, quando un referendum popolare, istituito dopo l’incidente al reattore nucleare di Cernobyl, in Ucraina, nel 1986, bloccò, allora si riteneva definitivamente, la costruzione delle centrali nucleari previste dal piano energetico, lasciandone in piedi solo quattro, successivamente dismesse o riconvertite.

 

Alcune di queste centrali entrarono realmente in produzione accumulando una serie di scorie radioattive che stanno ancora aspettando una sistemazione definitiva. In Europa la situazione relativa alle centrali nucleari ha avuto uno sviluppo molto più rapido e deciso di quanto non sia accaduto nel nostro paese, anche sotto la spinta (forse all’epoca un poco enfatizzata dai fautori del nucleare) di imminenti e catastrofi che crisi petrolifere evocate in occasione di alcune limitazioni realmente avvenute. In ogni caso Francia, Inghilterra e Germania (e successivamente Spagna) si sono dotate, nel tempo, di un certo numero di centrali nucleari (la Francia è stato il paese più deciso nell’intraprendere questa strada, arrivando a coprire il 75% del fabbisogno interno) garantendosi una percentuale rilevante di autonomia rispetto al petrolio, ma pur sempre dipendendo da questo in maniera importante. L’Italia, spesso fanalino di coda in molte questioni, ha deciso nel 2010 di aprire nuovamente al nucleare – salvo poi fare retromarcia dopo l’esito referendario.

 

Fino al 18 marzo 2011, data dell’incidente alla centrale di Fukushima, si riteneva dunque che il nucleare potesse essere una ragionevole e vantaggiosa alternativa al petrolio, rischiosa e problematica quanto si vuole, ma l’unica strada percorribile nell’attuale contesto, al punto che, come si è detto, anche in Italia si era ricominciato a parlare di possibili riaperture al nucleare, visti i grandi progressi in questo settore e la maggiore sicurezza delle centrali rispetto alla situazione del 1986. La catastrofe giapponese ha messo nuovamente in luce i rischi intrinsecamente connessi a questa particolare trasformazione e, nonostante la lontananza del Giappone dall’Europa, ha ridato vita allo spettro di Cernobyl, al punto che la Germania, detentrice di una quota parte di energia nucleare valutabile attorno al 25%, ha deciso di chiudere le sue centrali entro il 2022 e anche la Svizzera sarebbe intenzionata a prendere questa decisione.

 

Il secondo problema che si agita sullo sfondo riguarda direttamente le controindicazioni di una eventuale scelta dell’opzione nucleare (tuttavia è in qualche modo riconducibile anche alla situazione in cui si continuasse con il petrolio, metano e/o carbone) ed è connesso con il problema dello smaltimento delle scorie radioattive e, più in generale, delle possibili fonti di inquinamento prodotte dalle centrali. In questo caso il problema è stato semplicemente non affrontato rimandando ai posteri l’eventuale soluzione. Si è già accennato alle poche scorie prodotte nelle centrali italiane durante il loro breve periodo di esercizio, una parte delle quali giace in siti provvisori sul nostro territorio, mentre un’altra è stata trasferita all’estero. Altrove, e con quantitativi più importanti, la soluzione trovata è stata quella di interrarle in siti opportuni all’interno di contenitori adatti a contenere il materiale radioattivo. Un primo aspetto è legato al tempo di esaurimento delle radiazioni, valutabile comunque in qualche secolo, soluzione che comporta comunque il rischio di possibili contaminazioni e che scaricherebbe sulle future generazioni tutti gli oneri derivanti da vantaggi che verrebbero acquisiti oggi e la cui estensione ad un domani, non meglio precisato, è tutta da valutare e da dimostrare. Insomma, è come mangiare al ristorante e lasciare il conto ai nostri pronipoti. Il terzo aspetto è più tecnico ed è connesso ai costi di una eventuale produzione energetica di tipo nucleare. Se è vero, infatti, che una barretta di uranio di pochi grammi genera tanta energia quanto400 kg di carbone (è lo slogan preferito dei fautori del nucleare) è anche vero che i costi di costruzione delle centrali, quelli per accrescerne i livelli di sicurezza e, finalmente, quelli connessi con lo smaltimento in condizioni di relativa tranquillità della barretta di cui sopra diventano talmente alti da risultare forse superiori a quelli che si ottengono oggi con il petrolio o con il gas. D’altra parte, il rischio di inquinamento relativo alla produzione di energia con carbone o petrolio non è certo inferiore, come dimostrano le numerose catastrofi ambientali avvenute negli anni, dovute in genere al naufragio di petroliere o come il recente incidente alla piattaforma marina della BP nel golfo del Messico, ma tale rischio genera un livello di allarme nell’opinione pubblica decisamente inferiore rispetto al rischio nucleare.

 

Sintetizzando al massimo il senso di quest’analisi, la situazione che i paesi occidentali si trovano di fronte è sostanzialmente riconducibile a tre possibili alternative, nessuna delle quali indolore, ma con livelli di pericolosità per l’ambiente e noi stessi decisamente diversi.

 

La prima alternativa è rappresentata dal continuare sulla strada finora intrapresa, facendo finta che nulla sia successo e nulla succederà. Ciò significa attingere al petrolio o al metano finché queste materie prime siano disponibili a prezzi per noi accettabili e prepararci a stringere la cinghia (cosa che in parte sta già avvenendo) quando il costo delle risorse, per una serie di motivi facilmente intuibili, comincerà a crescere. Questa strada, seppure concettualmente ipotizzabile, secondo molti osservatori non ci porterà molto lontano, a causa dell’alto inquinamento che tali sostanze producono e a causa delle conseguenze economiche che, soprattutto in Italia, il perpetrarsi di tale situazione causerà all’economia nel suo complesso. Molti, infatti, sostengono che non saremmo in grado di reggere un’altra crisi petrolifera e, vista la situazione internazionale, nessuno è pronto a mettere la mano sul fuoco sul fatto che tale crisi non ci sarà. La seconda strada è rappresentata dall’opzione nucleare di cui si è ampiamente parlato e di cui, immagino, ognuno si sarà fatto una sua personale idea. Prescindendo dai rischi, poco valutabili in una direzione e nell’altra, sebbene potenzialmente alti e non del tutto eliminabili, lo scoglio più forte rimane a mio avviso il problema dei costi e della gestione delle scorie. Non voglio dire che il pericolo non sussista, ma in altri settori questo è ampiamente previsto e dovrebbe far parte delle controindicazioni di quello che chiamiamo “progresso”: andare in America in aereo è rischioso, ma se vogliamo impiegare sette ore per stare a New York non ci sono alternative. Produrre energia in quantità tale da risultare adeguata ai ritmi con cui la consumiamo richiede l’assunzione di alcune responsabilità (rischi per la salute, inquinamento, incidenti, ecc.). Nel caso della produzione di energia le alternative ci sono e sono tutte all’interno della terza strada, ovvero l’opzione del consumare meno e consumare meglio, ma anche in questo caso è necessario un minimo di consapevolezza: dobbiamo sapere che consumiamo risorse ad un ritmo insostenibile e che esiste la possibilità di produrre una considerevole quantità – non tutta, ma una buona parte dell’energia che ci è necessaria – per mezzo di fonti rinnovabili, a iniziare dal solare fotovoltaico.

 

Torno un momento alle considerazioni iniziali inerenti ai grandi cambiamenti che la disponibilità di risorse energetiche ha prodotto nell’arco del 20° secolo.
In realtà tale disponibilità di energia non ha coinvolto soltanto la nostra sfera privata, ma ha introdotto cambiamenti ancora più rilevanti al di fuori dell’ambito strettamente domestico, da quelli avvenuti nella ricerca in campo medico e scientifico a quelli nel campo della tecnologia, a quelli dei nuovi materiali. Si è trattato di un effetto volano che ha messo in moto una serie di meccanismi molto diversi tra loro, alcuni di carattere più generale, altri decisamente verticalizzati su aspetti specifici ma che, nel loro complesso, hanno avuto una serie di ricadute sul progresso complessivo della società, migliorando gli standard qualitativi, aumentando la produttività delle imprese, assicurando lavoro ed occupazione, insomma intervenendo in vario modo sul livello di benessere del singolo paese.

 

Solo grazie a tanta disponibilità ed abbondanza le condizioni di vita del mondo occidentale hanno subito, come si è detto, uno sviluppo inimmaginabile fino a pochi anni prima, ma tale sviluppo è stato così forsennato ed imprevidente da mettere in crisi anche le ragioni stesse che lo hanno reso possibile. Come spesso accade nello sviluppo dei processi storici, le cause che determinano la fine di una determinata fase – quale che sia – contengono in sé anche i presupposti per il suo superamento e per la creazione di un nuovo e più stabile equilibrio. E così la grande euforia nel dispiegamento di tutte le potenzialità energetiche disponibili nei più disparati settori ha consentito importanti passi in avanti in due direttrici attualmente conflittuali, ma riconducibili alla stessa disciplina: la ricerca scientifica nel campo della fisica. Una delle due è stata alla ribalta della cronaca poco tempo fa per un referendum che la riguardava e per il recente incidente a Fukushima, in Giappone. Sto parlando dell’energia nucleare e della possibile utilizzazione delle centrali a fissione come sorgente di energia, della quale mi pare si è detto abbastanza. La seconda, nota come meccanica quantistica o fisica dei quanti, credo meriti un qualche approfondimento.

 

La sua prima formulazione – non si può parlare di una “scoperta” in senso stretto visto il grande numero di scienziati che hanno lavorato alle ricerche per un periodo di tempo abbastanza lungo – è avvenuta nei primi anni del 20° secolo e, pur avendo avuto importanti ricadute, è sconosciuta ai più. I padri della teoria dei quanti (questo è il nome della teoria che regola l’infinitamente piccolo) si chiamano Schrödinger , Bohr, Heisenberg, Pauli e, credo, siano gli scienziati contemporanei meno noti in assoluto. La teoria dei quanti è la fi sica che governa il mondo degli atomi all’interno della materia, laddove la fisica classica, quella di Galileo, Newton e Maxwell, entrano drammaticamente in crisi. Tanto per far comprendere la portata delle ricadute in campo tecnologico dovute alla meccanica quantistica, c’è da osservare che dal transistor in poi, e quindi microchip, microprocessori, computer, tutta l’elettronica digitale, telefonini, fino ad arrivare ad iPod ed iPad, unitamente alla stragrande maggioranza dei dispositivi domestici e che non lavorano con circuitazioni digitali, si basano sulle conoscenze e sulle scoperte all’interno della meccanica quantistica. Ma non solo. Molti dei nuovi materiali e delle nuove prospettive che si sono aperte in diversi settori, ad esempio nella medicina, sono dovuti proprio alla ricerca sulle proprietà microscopiche della materia. L’aspetto più interessante ai fini dell’analisi che stiamo facendo riguarda la scoperta, sempre all’interno del raggio di azione della meccanica quantistica, dei semiconduttori drogati e, in particolare, in relazione all’effetto fotovoltaico, dell’effetto di matrice squisitamente quantistica, che sta alla base del meccanismo della produzione di energia elettrica dei pannelli fotovoltaici, pannelli che oggi rappresentano una delle più convincenti forme di energia rinnovabile alternative al petrolio.

 

Si tratta di una fonte rinnovabile che sfrutta l’energia solare non già per ricavare direttamente acqua calda come fanno i pannelli solari termici, ma per produrre energia elettrica, quella che oggi si ottiene bruciando gas o petrolio per alimentare le turbine o sfruttando l’enorme energia che scaturisce dalla fissione nucleare per produrre vapore ad alta temperatura che, a sua volta, alimenta le turbine che producono l’energia elettrica. I pannelli fotovoltaici producono l’energia elettrica direttamente, senza nessun altro elemento di trasformazione e, nonostante l’assenza della classica dinamo, il punto debole è rappresentato proprio dalla bassa efficienza di conversione. Ma anche qui le cose stanno cambiando ed a fronte di rendimenti del 1215% dei pannelli commerciali si arriva a punte del 30-40% in esemplari di laboratorio, senza contare la sperimentazione che sta avvenendo nel campo dei materiali organici, il cui costo, rispetto agli attuali pannelli in silicio, materiale estremamente abbondante e comune sulla terra, ma che va purificato e lavorato per realizzare la giunzione necessaria per l’effetto fotovoltaico, è assolutamente trascurabile. Ma qui entriamo in altro campo.

Egidio Mancianti

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