Barriere architettoniche locale commerciale in condominio: chi è responsabile del mancato accesso dei portatori di handicap?

Purtroppo accade spesso che locali commerciali facenti parte di un condominio non abbiano un accesso agevole per i portatori di handicap. Il gestore del locale può essere costretto dal Comune a chiudere? È responsabile del mancato accesso dei portatori di handicap?

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Barriere architettoniche e locale commerciale in condominio: il gestore è sempre responsabile per il mancato accesso dei portatori di handicap? Esaminiamo la vicenda.

In questo periodo si parla tanto di bonus barriere architettoniche, cioè degli incentivi fiscali riconosciuti per la realizzazione di interventi finalizzati al superamento e all’eliminazione di barriere architettoniche in edifici già esistenti (>> il bonus del 75% è stato prorogato fino al 2025 dalla Legge di Bilancio 2023).

A quanto sopra bisogna aggiungere che secobndo la più recente giurisprudenza il comma 3, art. 10 del D.L. 76/2020 (cosiddetto “Decreto Semplificazioni”), convertito in legge dalla L. 11/09/2020, n. 120) ha modificato l’art. 2 della legge n. 13/1989, vietando solo l’installazione di impianti che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato; di conseguenza detta normativa sembra aver eliminato ogni riferimento al rispetto del decoro architettonico e alla necessità di assicurare l’uso e il godimento, “anche di un solo condomino”, delle parti comuni.

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Il legislatore italiano ha deciso di adottare la normativa in parola, per dare finalmente il via ad un progresso notevole in termini di civiltà e cultura del rispetto.

Purtroppo infatti accade ancora che locali commerciali facenti parte di un caseggiato non abbiano un accesso agevole per i portatori di handicap. Il gestore del locale può essere costretto dal Comune a chiudere il locale? Il gestore è sempre responsabile per il mancato accesso dei portatori di handicap?

Tali questioni sono state affrontate dalla recente decisione del Consiglio di Stato n. 8470 del 3 ottobre 2022.

La vicenda

Ad un locale destinato, sin dalla sua edificazione negli anni ’40, ad esercizio di attività di bar ristorazione, si accedeva da sempre attraverso un portone condominiale, superato il quale si giungeva ad un vano scala e, quindi, dopo una rampa di pochi gradini, a un ascensore e a un’altra rampa di gradini necessaria per accedere ai piani superiori; al primo piano si trovava poi il portone di ingresso principale dell’attività. Nel corso degli anni, l’attività era stata destinataria di numerosi controlli da parte delle autorità amministrative competenti, tra cui anche il Comune; tuttavia mai nessuna delle irregolarità contestate si era poi dimostrata dotata di fondamento.

Successivamente veniva eseguito un ulteriore sopralluogo da parte di un tecnico comunale (con tanto di rilievi fotografici), e da tale accesso emergeva come l’unità commerciale fosse al suo interno adeguata alla legge. Tuttavia, tuttavia, dopo appena tre mesi il Comune avviava un nuovo procedimento volto alla chiusura dell’attività, questa volta contestando il mancato rispetto della normativa in materia di eliminazione delle barriere architettoniche. Infatti il locale risultava inaccessibile dall’ingresso al piano terra, in quanto l’esistente ascensore non era di adeguate dimensioni, e la scala risultava sprovvista di dispositivi idonei al superamento delle barriere architettoniche. Il Comune emetteva un’ordinanza con cui ordinava la cessazione immediata dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande nel locale in questione in ragione di quanto emerso dal sopralluogo.

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La decisione del TAR

La società interessata proponeva ricorso per l’annullamento del provvedimento e il risarcimento dei danni connessi innanzi al TAR che, dopo aver accolto l’istanza cautelare, dava torto alla ricorrente. Ad avviso dei giudici di primo grado se l’edificio privato viene adibito a pubblico esercizio deve essere garantita l’accessibilità agli spazi di relazione nei quali si esercita l’attività, ciò costituendo, sempre e a prescindere dall’epoca di edificazione, un requisito indispensabile la cui mancanza determina l’inabitabilità e l’inagibilità del locale. Ne conseguiva un appello e la vicenda quindi veniva rimessa al vaglio del Consiglio di Stato

La decisione del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato ha ricordato che il D.M. n. 239 del 1989 contiene sì delle prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, residenziali e non, e di edilizia residenziale pubblica ai fini del superamento delle barriere architettoniche, ma circoscrive pure espressamente l’ambito della sua applicazione alle sole ipotesi “di nuova costruzione” (cioè gli edifici costruiti dopo il 14 giugno 1989) ovvero alla “ristrutturazione” dei suddetti edifici, soltanto in quest’ultimo caso “anche se preesistenti alla entrata in vigore del presente decreto”.

Nel caso esaminato – come osservano i giudici di secondo grado – l’edificio è preesistente al 1989 e non è mai stato oggetto di ristrutturazione (come definita dall’articolo 3 lettera d) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), essendo state soltanto eseguite, all’interno del locale condotto in locazione dalla società appellante e destinato ad attività di ristorazione, opere di manutenzione straordinaria.

Nessuna responsabilità è quindi apparsa ravvisabile in capo al gestore del locale, che è stato raggiunto da un provvedimento del tutto illegittimo. L’ordinanza comunale quindi è stata annullata (Consiglio Stato 10 ottobre 2022 n. 8470).

Articolo di Giuseppe Bordolli, consulente legale condominialista 

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Immagine: iStock/peterhowell

Giuseppe Bordolli

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