Consumo di suolo: bloccare le attività umane sul territorio non è sbagliato, è demenziale

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Il problema del consumo di suolo va inquadrato nella prospettiva della rigenerazione urbana. Solo così si potrà arrestare il fenomeno e procedere, anzi, a una restituzione del suolo edificato a favore della comunità. Abbiamo intervistato in esclusiva la professoressa Emanuela Casti, titolare della cattedra di Geografia e responsabile del laboratorio cartografico Diathesis dell’Università di Bergamo.

In un recente intervento sulla rivista ArcVision edita da Italcementi, Casti ha evidenziato come, sul problema del consumo di suolo che affligge il nostro territorio, non sia più solo necessario arrestare il fenomeno, ma arrivare a un vero e proprio processo di restituzione, tramite adatte pratiche di rigenerazione urbana; partendo dalle città.

Abbiamo voluto incontrare Emanuela Casti per approfondire questo tema e per parlarci di una ricerca innovativa sull’argomento che il suo gruppo di ricerca sta portando avanti.

Mauro Ferrarini. Professoressa Casti, il tema del consumo di suolo è, purtroppo, di estrema attualità anche in relazione alle notizie di alluvioni, esondazioni e frane provocate da una dissennata programmazione di sviluppo del territorio. Il disegno di legge per arginare il fenomeno è in discussione in Parlamento. Basteranno le misure contenute nel provvedimento a invertire la tendenza?

Emanuela Casti. Nelle sue linee generali, il disegno di legge a cui lei accenna va nella giusta direzione dal momento che affronta il contenimento del consumo del suolo congiuntamente al riuso di quello cementificato.  Se la struttura del provvedimento dovesse essere mantenuta in questi termini, tuttavia, temo che la risposta non sia sufficiente.

Mauro Ferrarini. Perchè, si spieghi meglio?

Emanuela Casti. Semplicemente, il consumo di suolo è un fenomeno che non può essere risolto esclusivamente con leggi e decreti rivolti a limitare o impedire nuova cementificazione . Occorrerebbe un cambio di prospettiva radicale analizzando il problema da un’altra angolazione: restituire il suolo consumato per un nuovo utilizzo a servizio della comunità.

Mauro Ferrarini. Ma intanto ogni giorno, secondo i dati de Il Sole 24 Ore, vengono «mangiati» 100 ettari di terreno … Che fare?

Emanuela Casti. Come le dicevo, è necessario un cambio di prospettiva. Su questo punto abbiamo un esempio importante, relativo alla conservazione della Natura e alla protezione ambientale.

Mauro Ferrarini. Ci dica …

Emanuela Casti. La storia sulla conservazione della natura ci insegna che la protezione ambientale è decollata solo quando l’area protetta è stata considerata integrata al resto del territorio, ossia quando si è tenuto conto che l’azione antropica non è necessariamente dissipativa, e che, se condotta in modo sinergico, può favorire la rigenerazione sia della natura sia del territorio. Una filosofia che dovrebbe essere seguita anche dal nuovo disegno di legge sul consumo di suolo.

Mauro Ferrarini. In che modo?

Emanuela Casti. La restituzione di suolo e la rigenerazione urbana possono essere conseguite mediante azioni territoriali congiunte. . Occorre avere ben chiaro in mente che il territorio è l’esito ma anche la condizione dell’agire sociale. Difronte a un territorio che è stato reso fragile da una dissennata impermeabilizzazione non è più sufficiente impedire l’azione, “congelandolo” così com’è.

Il territorio è un sistema complesso e dinamico, dove astenersi dall’intervenire produce risultati sempre negativi. Definire i confini di un parco, ad esempio, recintarlo e impedire qualsiasi azione su di esso in nome della conservazione della Natura porta al degrado. Bisogna, invece, accompagnare la sua gestione con un’azione sostenibile di mantenimento nella cornice di un programma di protezione ambientale dove l’azione dell’uomo (pulizia dei fossi, contenimento degli argini, diradamento del sottobosco, ecc.) è imprescindibile.

Mauro Ferrarini. In un recente intervento sulla rivista ArcVision, lei ha detto che combattere il consumo di suolo non basta, occorre ridurre la superficie costruita. Ma come?

Emanuela Casti. Mettendo insieme i problemi relativi alla restituzione di suolo e alla rigenerazione urbana. Nel merito, propongo di recuperare quel suolo che oggi è inutilizzato o male utilizzato destinandolo sia ad aree verdi sia a edifici abitativi popolari. In che modo?

Mauro Ferrarini. Me lo dica lei …

Emanuela Casti. Lo si può fare demolendo e ricostruendo gli edifici dismessi, le case popolari e gli edifici demaniali obsoleti del patrimonio ERP, mantenendo inalterata la volumetria degli edifici ma diminuendo la superfice coperta.

Ci siamo ispirati a quello presente in molte città del Mondo, come Tokyo, dove si sviluppano gli edifici sia in altezza che in profondità. L’altezza dello stabile rimane invariata per conservare il paesaggio urbano e assolvere la funzione abitativa; la profondità serve per aumentare la volumetria e dotare gli stabili di nuovi servizi areati e illuminati in modo artificiale (garage, vani tecnici, cantine, supermercati, servizi, palestre, ecc.).

Ebbene, applicando questo modello ai quartieri popolari lombardi, abbiamo stimato che è possibile mantenere la volumetria, aumentando del 100% i garage e liberando circa il 40% della superficie occupata, da destinare ad aree verdi interne al quartiere.

Mauro Ferrarini. Sempre in tema di rigenerazione del tessuto urbano, lei ha realizzato una ricerca specifica. Ce accenna i contenuti?

Emanuela Casti. La ricerca propone un processo circolare di demolizione-ricostruzione tra aree dismesse e obsolete: si demolisce e ricostruisce gli edifici dismessi, da utilizzare per lo spostamento degli abitanti che vivono negli edifici obsoleti.

La ricerca, proprio perché prevede una rigenerazione territoriale inclusiva, considera l’aspetto sociale strategico assumendo come centrale la governance rispetto agli abitanti nelle fasi della progettualità ma anche durante tutto il processo di demolizione/costruzione.

Mauro Ferrarini. Più precisamente come?

Emanuela Casti. I quartieri dove coesistono aree dismesse e case popolari obsolete permettono di pensare a spostamenti a breve raggio degli abitanti che possono quindi continuare a mandare i figli nelle stesse scuole, mantenere il medico di base o la fidelizzazione ai servizi, insomma, che possano mantenere la rete sociale. Questo se accompagnato da un processo partecipativo dovrebbe risolvere tutti i problemi.

La partecipazione recupera lo spatial capital ossia l’insieme di esperienze e di competenze degli abitanti nella gestione dei luoghi. Mediante una metodologia partecipativa denominata Strategia SIGAP, elaborata dal Laboratorio Diathesis, si indaga l’uso dei beni spaziali pubblici presenti (servizi pubblici; accessibilità; patrimonio naturale), si identificano le priorità e le criticità (fattori inquinanti; necessità di spazi verdi; disagio sociale e sicurezza) e si recupera la stratificazione dei valori attribuiti ai luoghi. Tutto ciò mediante tecniche partecipative integrate che oltre ai focus group utilizzano le tecnologie smart (social media, survey e mapping collaborativo).

Mauro Ferrarini. Quali sono, a oggi, i risultati più significativi della vostra ricerca?

Emanuela Casti. Prevista a scala nazionale, la ricerca ha appena concluso le indagini sulla Lombardia. Un gruppo, composto da 8 ricercatori (in prevalenza geografi ma anche urbanisti e informatici) e tre studenti, ha condotto (dalla metà del 2013 e per circa 2 anni) la ricerca che, creando una banca dati sulla localizzazione, quantità e qualità degli gli edifici obsoleti (case popolari degli anni ’50-80) e di quelli abbandonati (capannoni, fabbriche, ma anche caserme ed altro) di cui non si conosceva né l’entità né dove si trovavano … come diceva Luigi Einaudi, infatti, «Per ben deliberare, occorre conoscere»; la creazione della banca dati è quindi stato il primo passo indispensabile per avere un quadro esauriente della situazione.

Mauro Ferrarini. E dalle prime analisi di questo lavoro cosa è emerso?

Emanuela Casti. In Lombardia è emerso un numero impressionante di edifici attualmente non utilizzati o male utilizzati ossia circa 70 milioni di metri cubi (30% di dismesso e 40% di obsoleto) che possono essere abbattuti, ricostruendo al loro posto oltre 230.000 appartamenti popolari di circa 100 m2 da destinare agli attuali residenti delle case Aler o comunali e ai giovani in housing sociale permettendo di rispondere al fabbisogno abitativo ERP e nello stesso tempo valorizzare il patrimonio pubblico che se non recuperato rappresenta un costo sociale.

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