Terre e Rocce da Scavo, facciamo il punto dopo il Decreto del Fare

Roberto Pizzi 10/09/13
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A meno di un anno di distanza dall’emanazione del decreto 161/2012, il legislatore nazionale è intervenuto nuovamente sulla materia delle terre e rocce da scavo con il decreto  legge 21 giugno 2013, n. 69, meglio conosciuto come Decreto del Fare (consulta anche la Pagina Speciale sulle Semplificazioni nel Decreto del Fare).

Considerate le travagliate vicende normative susseguitesi negli anni, gli operatori del settore, specie quelli che lavorano su cantieri di grandi dimensioni, avevano riposto elevata attenzione nell’iter di approvazione e nella successiva emanazione del regolamento ex DM 161/2012.

Ci si attendeva, infatti, che il regolamento recasse con sé elementi di chiarezza, certezza e, dove possibile, semplificazione, per tutto il settore interessato dalla materia delle terre e rocce da scavo.

Senza dubbio il testo emanato rappresenta finalmente un momento di rottura rispetto al complesso panorama normativo che si è sviluppato (sarebbe meglio dire inviluppato) negli anni. Ciò nonostante, il regolamento presenta elementi che prestano il fianco a critiche e osservazioni, talora particolarmente rilevanti, e non ha comunque completato il quadro normativo di riferimento in tema di terre e rocce da scavo.

Si era, infatti, da tempo in attesa di un nuovo intervento normativo che regolamentasse le attività e i processi di “piccole dimensioni”, ovvero quelli con produzione di materiale da scavo inferiore a 6.000 mc, ai sensi dell’articolo 266, comma 7, del Testo Unico Ambientale.

Dopo il regolamento ex DM 161/2012 e prima del DL 69/2013, il decreto legge 26 aprile 2013, n. 43 (cosiddetto Decreto Emergenze ambientali ed Expo 2015), convertito con modificazioni nella legge 24 giugno 2013, n. 71, recava l’articolo 8-bis, rubricato Deroga alla disciplina dell’utilizzo di terre e rocce da scavo.

Con questo articolo si limitava l’applicazione del DM 161/2012 ai materiali da scavo prodotti nell’esecuzione di opere soggette ad AIA o a VIA, al fine di agevolare la realizzazione degli interventi urgenti previsti dallo stesso decreto legge, “adottando nel contempo una disciplina semplificata di tale gestione, proporzionata all’entità degli interventi da eseguire e uniforme per tutto il territorio nazionale”.

L’ultimo periodo, in realtà, lasciava margine interpretativo all’applicazione della deroga non solo alle attività richiamate nel DL 43/2013, ma a qualunque opera non soggetta a procedura VIA o AIA (leggi anche Terre e Rocce da Scavo, se arrivano da AIA o VIA sono sottoprodotti).

Si rammenta che il regolamento non si applica comunque, per quanto disposto dall’articolo 17-bis del DL 74/2012, nelle zone di Emilia, Lombardia e Veneto colpite dagli eventi sismici del maggio 2012, confermando la sostanziale inutilità, se non dannosità, dell’articolo 6 del regolamento stesso.

Inoltre, il comma 2 dell’articolo 8-bis, in attesa dell’emanazione di una semplificazione della normativa per la gestione dei materiali da scavo provenienti dai cantieri di piccole dimensioni e in deroga a quanto stabilito dall’articolo 49 del DL 1/2012 e dal regolamento, faceva rivivere per tale tipologia dio cantieri, l’applicazione dell’articolo 186 del Testo Unico Ambientale, abrogato con l’entrata in vigore del DM 161/2012.

Un chiarimento sull’applicabilità del regolamento e sulla motivazione alla base della riesumazione dell’articolo 186 è stato fornito dal Ministero dell’ambiente che, in risposta ad una nota dell’Ordine dei Geologi dell’Umbria, ha dichiarato che il DM 161/2012 non riguarda i piccoli cantieri ai sensi dell’articolo 266, comma 7, del Testo Unico Ambientale.

Il fatto che tale ultimo decreto non risultasse ancora emanato aveva indotto alcune Regioni a introdurre nuovamente propri provvedimenti, stavolta tesi a regolamentare i materiali da scavo provenienti da cantieri di piccole dimensioni. È il caso della LR Friuli 26/2012 (impugnata dal Governo innanzi alla Corte costituzionale), della DGR Liguria 89/2013 e della DGR Veneto 179/2013.

Inoltre, il 20 novembre 2012, a fronte della situazione di sostanziale stallo creatasi a seguito dell’introduzione del regolamento, l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE) e una lunga serie di imprese e altre associazioni, tra cui anche l’Associazione Nazionale Estrattori Produttori Lapidei e Affini (ANEPLA), hanno presentato ricorso davanti al T.A.R. Lazio per l’annullamento del DM 161/2012.

Tra le diverse motivazioni addotte figurava anche l’equiparazione sostanziale dei cantieri di minori dimensioni a quelli di medie o grandi dimensioni, derivante dall’articolo 3 del regolamento che definisce l’ambito di applicazione della norma e non esclude i cantieri con produzione di materiali da scavo fino a6.000 metri cubi.

Insomma, la sensazione di essere ripiombati nel caos totale era forte, anche perché, dopo tutto, restava comunque indeterminata la disciplina applicabile nel caso di terre e rocce da scavo in cantieri oltre i6.000 metri cubi prodotti nel corso di opere non soggette ad AIA o VIA.

Il Decreto del Fare, intervenuto mentre il DL 43/2013 era in sede di conversione, ha consentito di colmare tale vuoto normativo con gli articoli 41 e 41-bis.

Il comma 2 dell’articolo 41 novella l’articolo 184-bis del Testo Unico Ambientale, aggiungendo il comma 2-bis che limita l’applicazione del DM 161/2012 alle sole terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a VIA o ad AIA. E’ altresì disposto che il regolamento non si applica comunque alle ipotesi disciplinate dall’articolo 109 dello stesso Testo Unico Ambientale, ovvero:

1. materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi;

2. inerti, materiali geologici inorganici e manufatti;

3. materiale organico e inorganico di origine marina o salmastra, prodotto durante l’attività di pesca effettuata in mare o laguna o stagni salmastri;

4. fondali marini movimentati durante l’attività di posa in mare di cavi e condotte.

Il comma 3 integra le disposizioni in materia di matrici materiali di riporto introdotte dall’articolo 3 del DL 2/2012, rendendole coerenti con quanto riportato nel DM 161/2012. Più in dettaglio, è esplicitato il riferimento ai materiali di origine antropica, in cui si intendono compresi residui e scarti di produzione e di consumo, ed è introdotto il test di cessione al fine di escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee. Se conformi ai limiti del test di cessione, i riporti devono anche essere conformi alle Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC).

L’articolo 41 reca poi il comma 3-bis, che introduce una disciplina speciale finalizzata a consentire l’utilizzo dei materiali di scavo provenienti dalle miniere dismesse o comunque esaurite collocate all’interno dei siti di interesse nazionale (SIN), per la realizzazione, nell’ambito delle medesime aree minerarie di interventi di reinterro, riempimento, rimodellazione, costruzione di rilevati, miglioramenti fondiari o viari, altre forme di ripristino e miglioramento ambientali. Gli utilizzi sono consentiti se la caratterizzazione dei materiali citati, tenuto conto del valore di fondo naturale, abbia accertato concentrazioni degli inquinanti inferiori alle CSC in funzione della destinazione d’uso e che vi sia conformità al test di cessione. Ai sensi del comma 3-ter, le aree sulle quali insistono i materiali da scavo di cui al comma 3-bis sono restituite agli usi legittimi se anche per i suoli e per le acque sotterranee, delle citate aree è dimostrato il rispetto delle CSC e del test di cessione.

L’introduzione dell’articolo 41-bis disciplina l’uso dei materiali da scavo nei piccoli cantieri ai sensi dell’articolo 266, comma 7, del Testo Unico Ambientale in deroga alle disposizioni del DM 161/2012. Tale precisazione in realtà non sarebbe necessaria dato che, come detto, lo stesso Ministero ha chiarito la portata e l’ambito di applicazione del regolamento escludendo proprio i piccoli cantieri. Lo diventa, però, nel momento in cui il successivo comma 5 estende l’applicabilità del comma 1 ai cantieri più grandi non soggetti ad AIA o a VIA.

Il comma 1 prevede che l’assoggettamento delle terre e rocce da scavo al regime dei sottoprodotti di cui all’articolo 184-bis del Testo Unico Ambientale possa avvenire qualora vi sia la dimostrazione, da parte del produttore, del rispetto delle condizioni descritte in dettaglio in questo manuale, che sono sostanzialmente analoghe a quelle previste dal comma 1 del citato articolo 184-bis.

Senza dubbio, questa genericità rappresenta un punto critico della norma, considerato che non sono espressi in dettaglio gli elementi tecnici necessari per qualificare i materiali da scavo come sottoprodotti, per esempio per ciò che riguarda gli analiti da sottoporre a valutazione ai fini del rispetto delle CSC nonché le metodiche di campionamento.

Il comma 2 prevede che il rispetto delle condizioni citate dal comma 1 sia attestato dal proponente o dal produttore tramite dichiarazione resa all’ARPA ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 445/2000, introducendo una prassi nettamente semplificata rispetto a quella prevista dal regolamento, ovvero la redazione del Piano di Utilizzo.

Nulla però viene disposto in ordine al coordinamento tra le pratiche di richiesta di autorizzazione alla realizzazione delle opere e la dichiarazione sopra citata, connessa all’attività di produzione di materiali da scavo.

Il comma 5, come detto, estende l’applicazione delle disposizioni sopra descritte anche ai materiali da scavo derivanti da attività ed opere non soggette ad AIA o VIA, consentendo di colmare il vuoto normativo venutosi a creare con l’articolo 8-bis del DL 43/2013, la cui abrogazione è disposta dal comma 6 dell’articolo 41-bis.

Il comma 7, infine, dispone che la definizione di materiali da scavo è integrata nelle corrispondenti definizioni previste in tema di rifiuti dal Testo Unico Ambientale.

È del tutto evidente l’elevata frequenza con la quale il legislatore è ricorso alla decretazione d’urgenza per modificare la normativa ambientale e, nello specifico, quella sui materiali da scavo, intervenendo anche su fonti secondarie. A questo proposito, il Comitato per la legislazione della Camera dei deputati ha sempre rilevato, nei propri pareri, che la modifica di norme secondarie da parte di norme primarie è difforme rispetto al disposto della circolare sulla formulazione tecnica dei testi legislativi, in base alla quale “non si ricorre all’atto legislativo per apportare modifiche frammentarie ad atti non aventi forza di legge, al fine di evitare che questi ultimi presentino un diverso grado di resistenza ad interventi modificativi successivi”.

Tale pratica potrebbe essere dovuta anche a una più agevole facilità di intervento del legislatore rispetto alle complesse procedure previste per l’adozione e la modifica di regolamenti, ma crea non pochi problemi a tutti coloro i quali necessitano di testi unici e univoci su questioni ambientali sempre più complesse e con possibili pesanti risvolti sanzionatori.

Resta, infine, da valutare, così come è stato per il DM 161/2012, la reale possibilità di attuazione delle nuove norme sulle terre e rocce da scavo in sede di concreta applicazione, senza escludere eventuali interventi interpretativi da parte del Ministero dell’ambiente e, con maggiore probabilità, delle Regioni e delle autorità ambientali, come avvenuto anche in vigenza dell’articolo 186 del Testo Unico Ambientale.

Roberto Pizzi

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