Gli Architetti tra liberalizzazioni, manovre e stabilità

Carlo Lanza 25/01/12
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Queste note sono indirizzate alla maggior parte degli architetti, quelli, per intendersi, che negli ultimi anni hanno sofferto della dequalificazione della propria identità professionale, che hanno visto sciogliersi come neve al sole le proprie aspirazioni a vivere dignitosa­mente svolgendo l’attività con impegno e decoro, quelli che del “mercato” hanno visto e subìto solo la crudeltà.

 

Non mi rivolgo ai grandi studi, alle società di progettisti, alle “archistars” che spesso sono complici consapevoli della situazione di crisi in cui versa la nostra professione e che, in certi casi, utilizzano questa crisi a loro vantaggio. Le considerazioni che faccio nascono dalla conoscenza diretta di molte situazioni emblematiche e dall’esperienza di anni di Commissione Parcelle e di Sportello Tariffe.

 

Se chi leggesse la cosiddetta “manovra” (con le correzioni apportate con l’emendamento alla legge di Stabilità e con le altre misure approvate, fino al Decreto Liberalizzazioni) riferita all’attività professionale in Italia, in particolare per quanto riguarda gli architetti, si dovesse fare un’idea di quanto oggi avviene nel mondo della nostra professione che rende urgente e indispensabile applicare questi provvedimenti, avrebbe la certezza che fino ad oggi l’anarchia e la sopraffazione da parte di tutti i liberi professionisti abbiano regnato sovrane. Uno scenario che vede professionisti o gruppi di professionisti che si accaparrano tutti gli incarichi, svolgono la loro attività senza curarsi della qualità del loro operato, impongo­no prezzi esagerati, in ciò coperti dai loro ordini. Si deduce anche che i committenti sono intimoriti e subiscono, impotenti, questa situazione (altrimenti sceglierebbero altri professionisti più adatti alle loro esigenze e che tengono alla qualità e applicano prezzi ragionevoli ed equi). Come se il cosiddetto Decreto Bersani non fosse mai esistito e come se non si fossero verificate situazioni di spietata concorrenza con ribassi dei valori delle tariffe (fissate e mai aggiornate da decenni) del 50, 60, 70%.

 

Non solo. Aver inserito quelle norme in una manovra finanziaria non può che significare, agli occhi di un osservatore, che senza di loro rimarrebbero aperte pericolose falle nel sistema economico a scapito del risanamento dei conti della nazione, così come si è inteso che fossero indispensabili l’aumento dell’IVA, il taglio delle pensioni, ecc.

 

Per non farsi sfuggire nessuna delle sfumature del testo approvato e successivamente emendato e integrato della Legge 14 settembre 2011, n. 148, occorre scorrerlo in tutti i suoi enunciati per far emergere la pericolosità sociale (e, in questo caso, economica) dei comportamenti di tutte le categorie professionali (e non solo di alcune, come forse sarebbe stato utile affermare) e la puntualità dei provvedimenti assunti.

 

Innanzitutto va letto il titolo dell’articolo 3 che ci riguarda direttamente (è sempre buona norma collegare il titolo di una legge o di un articolo al suo contenuto: le buone intenzioni scivolano spesso in disposizioni incoerenti).

 

“Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche”
Per quanto riguarda noi architetti, l’accesso e l’esercizio dalla professione non mi pare sia­no sottoposti a particolari restrizioni contenute in leggi o in regolamenti e non dovremmo quindi essere oggetto di alcun provvedimento: ma il legislatore ha pensato che, a scanso di equivoci, tutte le professioni dovevano essere coinvolte, tanto da avere la necessità di af­fermare, nel cappello dell’enunciato:

 

– che l’esame di Stato è previsto dalla Costituzione – affinché a nessuno venisse in mente di considerarlo una restrizione da abrogare – e non è da mettere in discussione.
Non è chiaro, comunque, il significato di questa affermazione: “Fermo restando l’esame di Stato di cui all’articolo 33, quinto comma, della Costituzione per l’accesso alle professioni regolamentate”. Ci mancherebbe altro! Sarebbe pleonastico ricordare l’evidenza (la Costituzione non la si modifica, né è necessario confermarne l’autorevolezza, attraverso una legge ordinaria), ma forse è un messaggio a chi ritiene l’esame di Stato un’ingerenza del pubblico sul privato (“meno Stato, più mercato”) perché si attivi in altra sede e sembra quasi una “escusatio non petita” per non aver potuto derogare da quella disposizione.

 

– che tutti gli ordinamenti professionali dovranno garantire l’applicazione di una serie di principi (dalla libera concorrenza, alla diffusione sul territorio, alla consapevole possibilità di scelta da parte degli utenti).
Più che di libera concorrenza (che per i professionisti è un concetto astratto che si traduce esclusivamente nel prezzo per prestazioni spesso non confrontabili tra di loro, per non vo­ler pensare a prerogative che qualcuno può mettere in campo in funzione del raggiungi­mento più o meno garantito del risultato – i classici “cani da riporto”) forse bisognerebbe parlare di confronto tra professionisti sulla base di competenze professionali e di espliciti principi etici: ma questo sarà difficile imporlo per legge.

 

Per altro, riguardo al tema della liberalizzazione e della concorrenza, dalle indagini condot­te da Altroconsumo, l’argomento appare sostanzialmente estraneo alle professioni tecni­che, essendo le segnalazioni e i reclami per il mancato rispetto dei principi, solo il 4% del totale, mentre sembrano frequenti e addirittura endemici soprattutto per notai ed avvocati.

 

Operativamente, gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati en­tro il 13 agosto 2012, per recepire gli orientamenti elencati dal dispositivo approvato.

 

Il primo principio enunciato riguarda la libertà di accesso alla professione, a meno che non sussistano ragioni di interesse pubblico. Come si diceva prima, per gli architetti, nulla di nuovo: superato l’esame di Stato, l’iscrizione all’Ordine, pur se da alcuni ritenuta vessa­toria, non ha ostacoli di sorta.

 

Ma c’è da chiedersi, nel generale contesto delle professioni a noi affini, se il numero (non già “chiuso”, ma evidentemente “limitato” dalle circostanze che caratterizzano la nostra at­tività) di coloro che, laureati, con esame di Stato superato, iscritti all’ordine, esercitano effettiva­mente e in quali condizioni incerte la professione, non sia, quello sì, il vero problema socio economico che grava sul bilancio di una nazione. La disoccupazione latente (la cosiddetta “partita IVA”, alias “libero professionista”, che non ha alcun incarico, ma che non è uffi­cialmente disoccupato) o la sottoccupazione generalizzata di professionisti di alto livello (pensiamo sempre alla cosiddetta “partita IVA”, cioè quel libero professionista, di fatto di­pendente precario, pagato, quando è pagato, non più di 6 euro all’ora, lordi, oppure a chi svolge altre attività non avendo la possibilità di fare l’architetto) rappresentano una doppia perdita per la società: da un lato risorse impiegate per portare alla laurea i giovani studenti che dovrebbero essere garanzia per l’intera collettività che l’investimento che tutti i cittadi­ni, con le loro tasse e con i sacrifici famigliari, hanno fatto nella scuola e nell’università, ha prodotto un serio bagaglio diffuso di conoscenze che non ritorna a vantaggio di tutti, e dall’altro l’invasione nel mondo del lavoro di tecnici senza prospettive di svolgere quelle mansioni per le quali si sono qualificati.

 

Qui la manovra, liberalizzando alcune restrizioni allo svolgimento di talune professioni senza modificare il quadro di riferimento, aumenta solo il numero dei concorrenti che si batteranno per conquistare le stesse posizioni sempre più precarie. E noi architetti, già di fatto liberalizzati da tempo, ne sia­mo, purtroppo, testimoni.

 

Invece, i “percorsi di formazione continua permanente” che i consigli nazionali degli Ordini dovranno regolamentare ci riguardano direttamente e spostano l’attenzione su un al­tro piano.
Va però sottolineato che da tutti i convegni, dibattiti, incontri, seminari che si sono occupa­ti del mondo delle professioni, non pare che sia emersa, come problema strutturale, una de­qualificazione degli architetti tale da costituire impedimento allo sviluppo dell’economia nazionale.

 

Ben venga, comunque, l’organizzazione di aggiornamenti professionali nel riassetto dei compiti istituzionali degli Ordini (l’esempio della Fondazione dell’Ordine di Milano che da anni svolge queste funzioni, ne dimostra l’utilità e la necessità, e va ben oltre all’aggior­namento individuale che ciascuno di noi è tenuto a svolgere e costantemente e diligentemente svolge), ma prevedere, nella manovra finanziaria, all’articolo che tratta delle “indebite restrizioni”, la sanzione disciplinare per la violazione dell’obbligo di formazione permanente organizzata dagli Ordini, introducendo di fatto una restrizione, dopo aver affermato, poche righe prima, che “l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autono­mia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista”, appare, per lo meno una inutile e ingiustificata contraddizione.

 

Che gli architetti, non avendo questo obbligo, pervicacemente rifiutino di aggiornarsi e of­frano quindi, scientemente, servizi scadenti alla committenza, è un concetto in palese con­trasto con quel principio di libera concorrenza dove, tra le qualità che devono emergere per vincere le sfide, l’essere attenti e preparati riguardo alla costante evoluzione della propria disciplina è un requisito fondamentale che non si può eludere.

 

Un ragionamento analogo vale per il tirocinio da regolamentare: più che appartenere al cam­po delle disposizioni utili a far uscire l’Italia dalla crisi economica, dovrebbe far parte di quei provvedimenti necessari – ma non contingenti e da assumere d’urgenza- al riordino delle professioni conseguente alle trasformazioni normative, alle innovazioni tecnologiche e alle nuove esigenze della società (e, perché no, alle carenze dell’università che non pre­para a svolgere la professione o al fallimento delle cosiddette lauree brevi).

 

Che la mancanza dell’obbligo all’aggiornamento permanente e la carente regolamentazio­ne del tirocinio siano tra le cause della crisi economica che si sta attraversando, è una tesi difficile da sostenere. Per parlare degli architetti, i professionisti non sono dequalificati o non in grado di svolgere con la dovuta esperienza il lavoro per cui sono abilitati: la realtà è che il lavoro che c’è non è per tutti e che quel poco lavoro che resta è, nella maggior parte dei casi, pesantemente sottopagato.

 

Potrebbe dare risposta a quest’ultimo problema  il contenuto del Decreto Liberalizzazioni che sostituisce quanto era stato affermato nella manovra del settembre scorso e che riguarda le i compensi professionali.

 

Con soddisfazione di chi tra noi svolge la sua attività con onestà e correttezza, già la cosiddetta manovra aveva stabilito l’obbligo di pattuire per iscritto, all’atto del conferimento dell’incarico da parte del committente, l’onorario spettante al professionista facendo comunque riferi­mento alle tariffe professionali, che potevano comunque essere derogate: l’obbligo preve­deva anche, per il professionista, la descrizione dettagliata delle prestazioni programmate e degli oneri ipotizzabili fino alla conclusione dell’incarico.
Il Decreto Liberalizzazioni conferma questa procedura, ma esclude ogni riferimento a qualsivoglia tariffa di riferimento.

 

Traducendo operativamente questo dettato, è resa obbligatoria la sottoscrizione di un contratto scritto o di un disciplinare che deve contenere l’oggetto della prestazione, gli oneri ipotizzabili dal conferimento dell’incarico alla sua conclusione, il preventivo scritto che stabilisca la misura del compenso pattuita in modo onnicomprensivo.

 

Per chi conosce il mondo degli architetti, il problema principale all’inizio di un rapporto professionale, nella maggior parte dei casi, non è quello di stendere un corretto disciplinare d’incarico, ma è quello di convincere il committente (in particolare quel committente a cui il Decreto rivolge la sua attenzione, in altre parole quel cittadino che utilizza occasionalmente il professionista) a sottoscrivere un qualsivoglia mandato. Si tratta dei cosiddetti contratti verbali che il Codice Civile, in questi casi, fino ad ora, ammetteva. Ben venga quindi un obbligo che garantisca un giusto rapporto tra prestazioni professionali e compensi determinato da definizioni certe di ruoli e compiti e sorretto da reciproci impegni condivisi: sperando che ciò possa effettivamente avere effetti benefici all’interno di un quadro economico nazionale in sofferenza.

 

Va detto che da molti anni l’Ordine di Milano insiste, attraverso ogni canale di informazio­ne, tra cuila Commissione Parcelle, perché ogni prestazione sia sostenuta da un corretto disciplinare che faccia riferimento alla legge, in ciò sostenuto anche dal Consiglio Nazionale che, nel pubblicare i Protocolli Prestazionali per opere private, ha riaffermato la necessità della condivisione di metodi e di contenuti tra committente e professionista.

 

Lo spirito con cui è stata elaborata la norma di legge non va certo, quindi, a contrastare i com­portamenti tipici degli architetti che da un simile proponimento hanno solo da at­tendersi, finalmente, un giusto riconoscimento dei propri diritti, sempre che vengano ri­spettati criteri equi di determinazione degli onorari.

 

Trattando degli onorari, si legge nel Decreto che “la misura del compenso ….. deve essere adeguata all’importanza dell’opera”. Occorre anche ricordare che per il Codice Civile esprime il principio secondo cui “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione” tenendo conto delle tariffe e degli usi. Occorre purtroppo prender atto che in un colpo solo, con gli ultimi provvedimenti, sono scomparse le tariffe ed è scomparso il decoro della professione: il tutto sottolineato dalla prescrizione che impone l’onnicomprensività preventiva dei compensi.

 

Quest’ultimo concetto esprime appieno una sempre più marcata superficialità nel considerare le professioni intellettuali che si ritiene svolgano attività ripetitive, quasi producessero vestiti in serie e non, come invece avviene in particolare nel nostro caso, per gli architetti, vestiti su misura della cui precisione ed efficacia si ha certezza solo al termine di un processo che è diverso caso per caso e che difficilmente è prevedibile fin dall’inizio (sia per l’incertezza di molte procedure amministrative spesso discrezionali, sia per lo sviluppo stesso del progetto nel confronto costante tra committente e professionista, sia per la natura di determinati incarichi che si costruiscono mano mano che si procede nell’approfondire temi e obiettivi). L’onnicomprensività presuppone una standardizzazione dei processi che, per una attività professionale come la nostra, è incompatibile con il ruolo civile e sociale che contraddistingue l’attività dell’architetto.

Applicando la nuova norma, ciascun contratto dovrà allora contenere un proprio criterio a­nalitico per la stima dei compensi costituendo, caso per caso, una tariffa professionale per­sonalizzata (per evitare equivoci converrà chiamarla “listino prezzi”)? O potrà fare riferimento a “parametri” analoghi a quelli ministeriali che il Decreto prevede siano da utilizzare, da parte del Giudice, in caso di contenzioso? O, ancora, sarà possibile fare propria la vecchia tariffa citandola nel contratto come libero criterio di calcolo dell’onorario?. Non ci sarebbe alcunché di scandaloso, visto che i criteri dettati dalla comunità europea e già introdotti nella legislazione italiana dal cosiddetto “decreto Bersani” del 2006, escludono la legittimità della “fissazione di prezzi minimi”, ma non escludono l’esistenza di tariffe di riferimento. In questo nuovo quadro di riferimento andrà affrontato, nella riorganizzazione degli Ordini, il nuovo ruolo delle Commissioni Parcelle in relazione alle procedure di convalida che diventeranno veri e propri opinamenti.

 

Un ulteriore principio introdotto dalla manovra riguarda l’obbligo della stipula di un’”ido­nea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale”, “a tutela del cliente”. Per riuscire a collegare il risanamento economico dell’intero paese con questo provvedimento, sarebbe interessante conoscere che incidenza può avere l’assicurazione ob­bligatoria nei rapporti professionali, ovvero, quanti casi si sono verificati che hanno visto intervenire un’assicurazione in un contenzioso e quante volte la mancanza di una polizza assicurativa ha danneggiato un cliente con spreco di risorse tale da impedire lo sviluppo di iniziative economiche determinanti per lo sviluppo del paese.

 

Sulla base di dati certi si potrebbero fissare criteri per l’applicazione di questa norma che andrebbe collegata altresì alle  premesse di questo articolo della “manovra” dove si legge che l’attività professionale deve essere caratterizzata dalla “differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti”. Si può infatti intendere che un’eventuale as­sicurazione del professionista possa essere valutata come prerogativa da tenere in conside­razione da parte del cliente nel giudicare la qualità dei servizi offerti dal professionista, così come il curriculum professionale, solo in relazione alla complessità della prestazione richiesta o al grado di rischio che la stessa comporta. Nel nostro caso di architetti, l’assicurazione per le opere pubbliche è richiesta, ad esempio, a partire dal progetto esecutivo, ma giustamente non per le altre attività propedeutiche a quel progetto per le quali non vi è rischio di danno per le amministrazioni pubbliche. Verrebbe da dire, tra l’altro, che l’eventuale obbligo delle stipula di un’assicurazione per quelle “partite IVA” di cui si parlava prima che sono compensate per 6 euro lordi all’ora, più che “a tutela del cliente” apparirebbe “a vantaggio delle società di assicurazione” e a ulteriore penalizzazione del già esiguo reddito del professionista.

 

L’obbligo a stipulare idonea assicurazione è tra le norme che entreranno a regime dal 13 agosto 2012, o prima, da quando gli ordini avranno riformato i loro ordinamenti, mentre il Decreto Liberalizzazioni considera fin d’ora necessario citare tale assicurazione nei contratti di incarico (in versioni del Decreto fatte circolare nei giorni precedenti alla sua approvazione, si leggeva la formula “se stipulata” che sembrava voler tener conto delle disposizioni vigenti).

 

Gli ultimi due principi introdotti dall’articolo 3 riguardano le commissioni disciplinari e la pubblicità informativa le cui norme, almeno per gli architetti, andranno, se necessario,  solo aggiornate.

 

Una disposizione immediatamente operativa che colpisce giustamente una forma di evasione fiscale, si trova, invece, al comma 5 dell’articolo 2 delle “manovra” dove viene stabilito che il professionista che, nel corso di un quinquennio, si è reso colpevole e gli è stato contestato di non aver emesso fatture per quattro volte (ma in giorni diversi), è sospeso dall’iscrizione all’albo “per un periodo da tre giorni ad un mese”: in caso di recidiva, “da quindici giorni a sei mesi”.
C’è solo da augurarsi che non si verifichino casi del genere e che la correttezza della mag­gior parte dei colleghi influenzi il comportamento di chi non rispetta le leggi.

 

Come appare evidente, ogni principio, ogni affermazione contenuti nella manovra  e dai successivi provvedimenti tendono sostanzialmente a chiarire come l’atti­vità professionale abbia lo scopo di soddisfare le esigenze del committente e come la legi­slazione debba tutelare il diritto di quest’ultimo ad avere servizi al prezzo più basso (libera concorrenza), della qualità più alta (laurea, esame di Stato, tirocinio, aggiornamento), con tutte le garanzie del caso (assicurazione). A parte i “confidi” (forme di garanzia sui prestiti dalle banche, a cui potranno appoggiarsi anche i liberi professionisti) nessun accenno al benché minimo diritto del professionista – che deve ingaggiare battaglie con i colleghi in nome della libera concorrenza, abbattere gli onorari (e quindi cercare di ridurre, dove può, i costi – 6 euro all’ora ai collaboratori!), fornire costose garanzie. – a veder riconosciuta la propria dignità, il proprio impegno, la scienza e la coscienza di cui è portatore, in sintesi, la propria “professionalità”.

 

Eppure, poteva esserci almeno un principio a favore di chi lavora e che è cittadino al pari dei cosiddetti “consumatori” a cui i provvedimenti rivolgono la loro attenzione.
Non spingiamoci a voler trovare, in una manovra finanziaria, la volontà di elaborare un cri­terio per un equo e decoroso compenso per le prestazioni professionali (anche se qualcuno, prima o poi, ci dovrà pur pensare e non solo per agevolare il compito dei giudici).

 

Occorre che una norma, in prima battuta, metta sullo stesso piano, in merito ai diritti e ai doveri, il committente ed il professionista, che, dopo aver dato prova di essere stato ligio ai principi di concorrenza, aver dimostrato di essere qualificato ed aggiornato, aver garantito che nessun danno verrà arrecato al cliente, non deve essere obbligato a rincorrere il committente per ottenere ciò che ha pattuito (essendo costretto spesso ad accettare ulteriori riduzioni del proprio compenso, il famoso “prendere o lasciare” una volta concluso il proprio lavoro) o a ricorrere al proprio Ordine e al parere della Commissione Parcelle (dove troviamo fatture – già ridotte all’osso – non pagate, patti contrattuali non rispettati per prestazioni correttamente fornite) per poi arrivare in tribunale senza che sia stata offerta, da nessuna norma di legge, per parità di trattamento, alcuna garanzia preventiva, mentre i committenti ritengono, con troppa facilità, di avere il famoso coltello dalla parte del manico (e spesso, visti i limiti del nostro potere contrattuale, ce l’hanno) e si possono permettere di eludere qualsiasi patto.

 

Scriveva Giuliano Amato, qualche anno fa:“Che fine farebbe il mercato senza la fiducia che ciascun operatore deve mantenere viva negli altri, ai fini della qualità di ciò che vende e della puntualità con cui paga ciò che compra? Le istituzioni soccorrono confe­rendo diritti legali e tribunali. Ma il mercato cesserebbe di esistere il giorno che ogni scambio finisse in tribunale”.

 

Sappiamo anche, per esperienza, che l’architetto, nella maggior parte dei casi, non può interrompere o minacciare di interrompere una prestazione per la quale si è impegnato, allo scopo di convincere il committente a rispettare il contratto: quasi sempre gli verrebbe tolto l’incarico e, di fronte alle proteste, le frasi di rito sarebbero “mi faccia causa!”  e “ci sono un sacco di architetti che lavorerebbero anche per meno” (e purtroppo è quasi sempre vero).

 

Ecco, ad esempio, una proposta per elaborare un principio (che sarebbe superfluo in una società “normale”, ma che, per mia esperienza di Commissione, in questo momento gioverebbe almeno ad un gran numero di architetti) da aggiungere agli altri: non costerebbe molto, ma ridarebbe dignità ai rapporti tra i cittadini.

 

xx) a tutela del professionista (*), il committente che conferisce un incarico ad un professionista,  è tenuto a procedere ad una delle se­guenti forme di garanzia:
– costituzione polizza fideiussoria a favore del professionista, pari all’importo pattuito al­l’atto dell’incarico, comprensivo di contributi previdenziali e IVA;
– deposito presso apposito fondo costituito presso …… (ad esempio, l’Ordine professionale o un notaio) dell’importo pattuito all’atto dell’incarico, comprensivo di contributi previdenziali e IVA.
In caso di mancato versamento di quanto dovuto alle scadenze previste dal contratto, la polizza fideiussoria verrà escussa in tutto o in parte, ovvero le somme corrispondenti verranno prelevate dai depositi costituiti, dietro presentazione di convalida, emessa dell’Ordine professionale e a carico del com­mittente, della relativa parcella.
(*) e della sua famiglia, dei suoi collaboratori, dei suoi fornitori oltre che dell’economia che gravita attorno a loro

 

Un’ulteriore cenno va fatto al “maxiemendamento” al DDL Stabilità 2011 quando afferma, nel commentare l’articolo riguardante la riforma degli Ordini, che “il nostro Paese,……, è ancora uno dei pochi Stati membri che vieta ai professionisti iscritti ad Ordini o Albi professionali, salve rare eccezioni, di esercitare la loro professione in forma societaria. Divieto che risulta incomprensibile alla luce delle sollecitazioni a rimuoverlo espresse dall’Antitrust, a sua volta ispirato dai recenti indirizzi dell’OCSE, della Commissione europea e della Corte di giustizia europea. ……… I professionisti italiani hanno bisogno di esplorare nuove forme di esercizio dell’attività professionale e tra queste vi è sicuramente quella so­cietaria, soprattutto in questo periodo di crisi economica che richiede sinergie e multidisciplinarietà e la necessità di individuare strumenti in grado contrastare la concorrenza esercitata da soggetti professionali stabiliti in altri Paesi UE ben più attrezzati sul piano delle disponibilità finanziarie e strumentali.”

 

Ci sarebbe da ricordare che la legge di conversione del Decreto Bersani, la Legge 248 del 2006, hagià abrogato tutte le norme precedenti che prevedevano “il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità.”

 

Ma non c’è solo la manovra di settembre, il maxiemendamento di novembre o il Decreto Liberalizzazioni a interessare il futuro della nostra professione. Il vento delle riforme soffia da tempo, anche se non ha ancora portato ad alcun risultato.
Occorre ribadire, anche in questa circostanza, che a poco serviranno, se serviranno, le liberalizzazioni se non si affronterà con decisione il tema della centralità del ruolo delle professioni all’interno di un disegno di riorganizzazione generale dei rapporti economici e dello sviluppo dell’intera nazione, che si concretizzi attraverso la partecipazione di tutti protagonisti con pari dignità. Qui molto forte è l’impegno del Consiglio Nazionale, più volte ribadito, a sollecitare le forze politiche a condurre in porto con grande sollecitudine un progetto di riforma delle professioni coerente e condiviso: a quello fa eco una proposta del Consiglio Nazionale degli Ingegneri che pone al centro del dibattito alcune questioni di significativo pragmatismo.

 

Il CNI, infatti, afferma, ad esempio, che uno strumento determinante per lo sviluppo è la lotta all’evasione e all’illegalità, ma non si ferma all’enunciazione di un principio: guar­dando all’interno della nostra realtà professionale, sostiene che, per contribuire a raggiun­gere quell’obiettivo, “per i professionisti servirebbe una taratura obbligatoria delle parcelle e riscossione delle stesse da parte degli Ordini” con la reintroduzione – sostiene il presi­dente Rolando – delle tariffe minime (un consiglio che non è stato certamente preso in alcuna considerazione dal governo). Per rendere più efficace e produttivo l’intervento dei professionisti nei fenomeni di trasformazione ritiene indispensabile un investimento pub­blico nelle nuove tecnologie ICT (Information and Communication Technology) “per dar vita ad uno Stato con una burocrazia efficiente che ponga al centro della sua azione le esi­genze dei cittadini, delle imprese, dei professionisti e di tutti gli altri soggetti socio-e­conomici”. Un nodo fondamentale è, poi, individuato nell’indispensabile investimento nel­le infrastrutture, sia materiali (alta velocità ferroviaria, autostrada, logistica, ecc.), sia im­materiali (banda larga, nuovi centri di ricerca e sviluppo nei settori strategici dell’energia, ICT, materiali, ecc.).

 

Tutti i tentativi che si possono fare per scrollarsi di dosso affermazioni generiche e per far sì che siano messi effettivamente a confronto i problemi con le possibili soluzioni, non possono che elevare il livello del confronto (sempre che gli interlocutori istituzionali non ritengano inutile ascoltare gli interessati).

 

Dovrà esserci necessariamente il tempo, ma soprattutto dovranno essere individuati i luoghi e i modi per approfondire e dibattere tutti questi temi per la specifica attività di architetto, per non lasciare a quelli che appaiono come sporadici e estemporanei provvedimenti il compito di disegnare il futuro della nostra professione.

Carlo Lanza

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