Terre e rocce da scavo, una pericolosa ipotesi di silenzio assenso

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Da recenti approfondimenti, sono giunto a ritenere che nel Regolamento sull’utilizzazione delle terre e rocce da scavo, il d.m. 161/2012, c’è una disposizione dall’apparenza molto chiara e precisa ma che, a ben vedere, è assai pericolosa e dalle possibili conseguenze nefaste!

Si tratta dell’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 5, sul Piano di Utilizzo, ormai familiarmente detto anche solo PDU. Detto documento, com’è ormai noto, è il cuore della gestione dei materiali a scavo (come ormai dice la stessa normativa, sostituendo il più limitato termine “terre e rocce”, visto che detti materiali possono comprendere anche altro.

Ma perché allora, a dispetto di questa precisazione in esso contenuta all’art. 1, co.mma1 lett. b), il decreto ministeriale reca invece nella sua stessa rubrica l’ormai “obsoleto” binomio terre e rocce da scavo? Perché in esso sono contenute tutte le informazioni tecniche ed organizzative per la gestione corretta di quei materiali nell’ambito della realizzazione di un’opera (verosimilmente, solo “pubblica”, atteso il richiamo che la norma sulle definizioni opera verso la normativa dei lavori – solo – pubblici. Al proposito leggi anche Terre e Rocce da Scavo, il DM 161/2012 applicabile solo ai lavori pubblici?).

Secondo l’articolo 5 citato, chi intende gestire dei materiali scavati secondo le regole del nuovo regolamento deve innanzitutto predisporre il PDU seguendo le indicazioni dell’Allegato 5 e presentarlo all’Autorità competente (Ministero, Regione o enti delegati, a seconda del tipo di “opera”) almeno 90 giorni prima dell’inizio dei lavori. Da quel momento l’Autorità avvia un procedimento interno di esame del PDU, avvalendosi delle ARPA (o APPA) e può anche chiedere integrazioni e/o chiarimenti.

Trascorsi i 90 giorni – dalla presentazione del PDU o delle integrazioni – l’Autorità competente “approva il Piano di Utilizzo o lo rigetta”. Ferma restando la possibilità (comunque consentita espressamente dal regolamento) di ripresentare il PDU, il terzo comma citato, che contiene le regole sin qui esposte, chiude in questi termini: “decorso il sopra menzionato termine di novanta giorni dalla presentazione del Piano di Utilizzo all’Autorità competente o delle eventuali integrazioni, il proponente gestisce il materiale da scavo nel rispetto del Piano di Utilizzo, fermi restando gli obblighi previsti dalla normativa vigente per la realizzazione dell’opera”.

Tralasciando la formula finale, piuttosto ovvia, colpisce la previsione che consentirebbe al proponente di avviare la gestione dei materiali col semplice spirare del termine indicato. E si tratta proprio del termine che il d.m. 161/2012 mette a disposizione dell’Autorità per pronunciarsi sul PDU: l’indicazione “sopramenzionato”, peraltro nel corpo del medesimo terzo comma dell’art. 5, non lascia spazio a dubbi di sorta.

La formulazione della norma può ricordare molto quella all’epoca esistente per la Denuncia di Inizio Attività, la c.d. DIA, disciplinata agli artt. 22 e 23 del d.P.R. 380/2001, il c.d. Testo Unico Edilizia. In quel caso, in effetti, la DIA, in sostituzione del permesso di costruire per alcuni interventi di minore rilievo dal un punto di vista urbanistico/edilizio, consisteva in un’autodichiarazione inviata al Comune, il quale aveva 30 giorni di tempo per svolgere le sue indagini e verifiche urbanistiche sull’intervento denunciato. Tuttavia, decorso detto termine, si intendeva ottenuto l’assenso comunale attraverso il suo silenzio, come espressamente riportato dalla complementare disposizione dell’art.19, L. 241/90 (che, con vecchia dicitura, parla di “dichiarazione di inizio attività”, ma l’argomento è lo stesso). Dopo i 30 giorni, il Comune poteva intervenire solo in autotutela (p. es. annullando il suo “assenso” per eventuali vizi intrinseci del “silenzio”) o in via sanzionatoria (p. es., se riscontrava “abusi” rispetto a quanto denunciato); non poteva, però, intervenire più sul tipo di intervento, avendo ormai “autorizzato” l’intervento, che poteva tranquillamente proseguire nei termini e nei modi riportati nella DIA.

Ricorrendo a questa impostazione, si potrebbe sostenere che anche per i materiali da scavo la normativa prevede qualcosa del genere, consentendo la gestione dei materiali in ogni caso dopo i 90 giorni perché l’Autorità competente ha, senza essersi pronunciata espressamente nel predetto termine, mostrato il suo “tacito” consenso alla gestione.

Non è così. Non può essere così.

È certamente vero che l’art.20, l. 241 citata, ammette il silenzio-assenso nei procedimenti ad istanza di parte e tra questi rientra senz’altro la presentazione e l’approvazione del PDU.

Dottrina e giurisprudenza, però, pretendono una apposita previsione di legge nei casi di silenzio-assenso: l’art. 5, d.m. 161/2012, al terzo comma potrebbe integrare un’espressa ipotesi del genere se non fosse detto, poco prima, che l’Autorità, come riferito in precedenza, è tenuta ad esprimersi al termine dei 90 giorni o approvando o rigettando. Questa previsione esclude il silenzio, esclude cioè che l’amministrazione possa tacere sul punto. E se tace? Si va al T.A.R. e si impugna il silenzio (non significativo) dell’Autorità competente a pronunciarsi sul PDU!

Di sicuro questa impostazione comporta tempi maggiori, unitamente alle lungaggini di eventuali ed opportune messe in mora dell’ente in caso di silenzio al termine del periodo consentito; a ciò si aggiungano le possibili ripercussioni sulle tempistiche, ad esempio, di un appalto pubblico, con quasi certe contestazioni da parte del soggetto esecutore (in questo caso, il proponente è il committente). Ma oltre ad un generale principio (giurisprudenziale) che vuole sempre e solo provvedimenti motivati in materia ambientale (cfr. tra molte, C. d. S., IV, n. 4246/2010), la gestione dei materiali da scavo attraverso un PDU non autorizzato (anche dolosamente dall’Autorità che, comunque, non avrebbe immediate conseguenze di legge dal suo silenzio se non, come detto, un possibile ricorso al giudice amministrativo, con i relativi costi innanzitutto per il ricorrente) e quindi con scelte gestionali non condivise con la PA e, magari, potenzialmente scorrette, espone il proponente e l’esecutore (a causa della sua indicazione all’Autorità ex art. 9, d.m. 161/2012) a pericolose conseguenze prima di tutto penali, per una possibile incriminazione per gestione illecita di rifiuti.

 

Paolo Costantino

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